Brevemondo

Guerra in Iran, Los Angeles, sanzioni alla Russia

Scoppia la guerra tra Israele e Iran, le rivolte in California, si parla ancora di Panama e Groenlandia e sanzioni europee contro la Russia

Benvenuti a Brevemondo. Questa domenica, quattro notizie, per dare più spazio a quanto accaduto tra Israele e Iran.

Il fronte iraniano

Israele ha condotto un imponente attacco contro l’Iran, colpendo i siti missilistici e le infrastrutture nucleari in cui da tempo veniva sviluppato il progetto atomico di Teheran ed eliminandone gran parte della linea di comando militare, a cominciare da Hossein Salami, capo delle Guardie della Rivoluzione. Un’offensiva che era stata anticipata dall’intelligence statunitense e che si è puntualmente verificata. In tutta risposta, l’Iran ha scagliato un centinaio di droni contro Tel Aviv, ma sarebbero stati tutti immediatamente intercettati, secondo quanto riportato dall’esercito israeliano.

Nelle ultime ore, dopo il fiasco dei droni, Teheran ha risposto con maggior forza. Da quanto emerso, sarebbero stati circa 150 i missili lanciati dall’Iran contro Israele, alcuni dei quali sarebbero riusciti a bucarne le difese. In totale, mentre in Iran gli attacchi israeliani avrebbero provocato la morte di 78 persone e oltre 300 feriti, in Israele la scarica di missili ha provocato decine di feriti e due morti a seguito di un’esplosione avvenuta nella città di Rishon Lezion. Successivamente, Israele ha ripreso a colpire il territorio iraniano. Verosimilmente, nei prossimi giorni, gli scambi continueranno quotidianamente.

Gli attacchi di Israele, stavolta, sembrano avere però anche un fine politico, non solo mirato a danneggiare - e, sperabilmente dal punto di vista di Tel Aviv, mettere definitivamente fuori uso - le infrastrutture militari e nucleari di Teheran. Già dal nome dell’operazione, “Rising Lion”, Israele ha fatto intendere qualcosa: il leone, infatti, era il simbolo della monarchia persiana prima della rivoluzione del 1979 ed era anche nella bandiera dell’Iran. Del resto, come ha specificato Netanyahu, la guerra in corso non è “contro il popolo israeliano”, ma “contro la Repubblica islamica”.

Tel Aviv durante gli attacchi [X Account]

Ciò sottintende uno sforzo israeliano in un’operazione volta anche al regime change in Iran, ovvero mirata a favorire il crollo della teocrazia nata nel 1979 e che, ormai da qualche anno, è contestata anche dall’interno, più o meno silenziosamente. Del resto, il fatto che gli agenti del Mossad abbiano potuto allestire una base per droni proprio in Iran fa immaginare come, negli ultimi tempi, abbiano potuto contare spesso e volentieri anche su funzionari della Repubblica islamica, che evidentemente non tollerano più il proprio governo. E Netanyahu ha rimarcato questo obiettivo: “la nostra lotta è contro la brutale dittatura che vi opprime da 46 anni”.

In tutto questo, gli Stati Uniti, almeno per il momento, restano a guardare. Il coinvolgimento di Washington si è limitato a supportare la difesa aerea di Israele durante l’attacco iraniano con i propri sistemi antimissile. In ballo, tanto per gli Stati Uniti quanto per Israele e Iran, c’è il programma nucleare di Teheran: mentre il presidente Donald Trump aveva espresso da tempo la necessità di arrivare a un nuovo accordo, le cui trattative però si stavano arenando, per Netanyahu era indispensabile agire prima che la Repubblica islamica fosse in grado di sviluppare le testate nucleari. Dirimente per lanciare l’attacco è stato il documento dell’Agenzia delle Nazioni Unite per l’energia nucleare, che ha evidenziato preoccupazioni sull’arricchimento dell’uranio da parte di Teheran, passo indispensabile per la costruzione della bomba.

Los Angeles in fiamme

Per giorni, a Los Angeles e in altre città vicine, si sono tenute violente proteste dovute alle operazioni della United States Immigration and Customs Enforcement, l’agenzia federale che si occupa della gestione del fenomeno migratorio. La violenza ha raggiunto un livello che ha spinto il presidente Donald Trump a dispiegare i marine e la Guardia Nazionale, ovvero una forza militare di riservisti di stanza in ciascuno dei cinquanta Stati. Normalmente, la Guardia Nazionale risponde agli ordini dei governatori, ma in casi eccezionali il presidente degli Stati Uniti ne può prendere il controllo. Nello specifico, l’inquilino della Casa Bianca può farlo quando si innescano sommosse che rendono inapplicabili le leggi federali in un particolare contesto.

L’ultima volta che un presidente “aggirò” il controllo di un governatore per prendersi il comando della Guardia Nazionale fu nel 1992, quando George Bush padre era alla Casa Bianca. Anche all'epoca, le sommosse si verificarono a Los Angeles, ma a differenza di oggi, trent’anni fa il governatore della California era Pete Wilson, un esponente del Partito Repubblicano - proprio come Bush - e fu lui stesso a chiedere l’intervento del presidente. Riguardo ai fatti degli ultimi giorni, la situazione è completamente diversa: non solo per le cause, ma anche per l’aspetto politico della faccenda.

Trump si trova infatti a interagire con un governatore del Partito Democratico, Gavin Newsom. Nel momento in cui Joe Biden aveva annunciato l’intenzione di non ricandidarsi, in molti avevano indicato proprio Newsom come possibile sfidante di Trump. Le rivolte di Los Angeles sono state un terreno di confronto perfetto per il presidente, che ha rivendicato l’approccio duro contro la Migrant Invasion, potendo rinforzare la sua retorica contro i migranti irregolari e anche contro i democratici, ritenuti incapaci di affrontare il tema. Da parte sua, invece, il governatore della California si è rivolto ai giudici, contestando la scelta di Trump di prendere il controllo della Guardia Nazionale di fronte: il procuratore generale dello Stato, Rob Bonta, ha infatti intentato una causa contro l’amministrazione federale, con l’obiettivo di “porre fine all'inutile e illegale uso della Guardia Nazionale”, che avrebbe “causato un’escalation di caos e violenza”.

I piani per invadere Panama e Groenlandia

Durante un confronto in una seduta della commissione sulle forze armate della Camera degli Stati Uniti, il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha di fatto confermato come il Pentagono abbia predisposto i piani per prendere controllo di Panama e Groenlandia con l’uso della forza, se ciò dovesse rendersi necessario. L’affermazione di Hegseth è arrivata in risposta a una domanda del deputato del Partito Democratico Adam Smith, che ha chiesto senza giri di parole se il Pentagono fosse arrivato a predisporre tali piani.

Ormai dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca, ma per la verità già dai giorni immediatamente successivi alla sua elezione a novembre scorso, i casi di Panama e della Groenlandia tornano regolarmente alla ribalta della cronaca. E su entrambe le situazioni, Washington si è mossa anche nelle ultime settimane, seppur indirettamente. Per quanto riguarda il canale che taglia in due le Americhe, a marzo la società d’investimento newyorchese BlackRock, alla cui testa vi è Larry Fink, uno dei principali sostenitori di Trump durante la campagna elettorale, ha predisposto l’acquisizione dei due terminal di accesso al canale, uno sul lato Atlantico e l’altro del Pacifico. La vendita si è poi congelata: per il momento, la compagnia di Hong Kong Hutchinson, che controlla i due porti, ha fermato la cessione. Che, comunque, non è sfumata.

Pete Hegseth [X Account]

Sulla Groenlandia, invece, in aggiunta alla visita del vicepresidente J.D. Vance, di cui abbiamo parlato anche su Brevemondo, l’amministrazione statunitense starebbe lavorando sull’idea di stringere con il governo dell’isola un accordo del tutto simile a quelli che Washington già ha con alcune isole del Pacifico, come la Micronesia, le isole Marshall e Palau. Si tratta dei cosiddetti Cofa, ovvero Compacts of Free Association, che se da un lato obbligano gli Stati Uniti a fornire diversi servizi alla popolazione locale, dall’altro garantiscono a Washington di muoversi liberamente sul territorio - a fini militari, per esempio - e di sgravare il commercio statunitense di qualsiasi dazio.

Sanzioni europee contro la Russia

La Commissione Europea, tramite la presidente Ursula von der Leyen, ha presentato il suo diciottesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia. Come spiegato dalla stessa von der Leyen, le misure adottate da Bruxelles riguardano prevalentemente due settori: quello energetico e quello bancario. I due che, fondamentale, sono stati presi di mira sin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina a febbraio 2022.

Sul primo versante, la Commissione Europea mira a diminuire le entrate nelle casse del Cremlino, che ancora poggiano in buona parte sull’export di energia. Per questo, sono stati presi di mira Nord Stream 1 e 2: nel dettaglio, è intenzione di Bruxelles di bloccare ogni operazione connessa con i due gasdotti, imponendo agli operatori economici dell’Unione Europea il divieto di effettuare direttamente o indirettamente qualsiasi tipo di transazione. Contestualmente, è stato deciso di imporre un price cap al petrolio, passando da 60 dollari ai 45 concordati al vertice del G7 del dicembre 2022. Per quanto riguarda il settore bancario, l’intenzione è di disporre una stretta ulteriore: dopo lo stop all’uso del sistema Swift, la Commissione punta a bloccare ogni transazione verso gli istituti di credito russi, da estendere anche ai Paesi terzi che commerciano con Mosca.

Ursula von der Leyen [X Account]

Le nuove sanzioni aprono a due scenari. Il primo è quello relativo alla posizione di Ungheria e Slovacchia, ormai tradizionalmente più rigide sull’applicazione di sanzioni contro la Russia. Per l’adozione del pacchetto, infatti, è richiesta l’unanimità dei 27 Stati membri. Una situazione che potrebbe sbloccarsi, però, anche grazie alla riunione del G7 in Canada, che comincia nella giornata di oggi e si concluderà martedì. Oltre ai Paesi membri, sono stati invitati anche India, Corea del Sud, Brasile e, appunto, Ucraina. Se verosimilmente Putin continuerà a non aprire alle trattative, continuando a colpire Kiev, stavolta Trump potrebbe in qualche modo avallare le sanzioni europee e unirsi, viste le minacce che ha già mosso contro Mosca. A fronte di un appoggio statunitense, difficilmente Ungheria e Slovacchia ricorreranno al veto.

Il pezzo della settimana

La notizia della settimana è senz’altro l’attacco israeliano contro l’Iran e la risposta di Teheran. Un conflitto che arriva da lontano, dal 1979, anno della Rivoluzione islamica che ha cambiato la storia recente del Paese. Ma perché Israele ha attaccato proprio in questi giorni? Il giornalista del Corriere della Sera Gianluca Mercuri ha dato tre risposte. Si legge qui.

La canzone della settimana

La classica domanda, il classico hashtag che imperversa su X a ogni conflitto: terza guerra mondiale? Probabilmente, no. Ma per questo, la settimana può concludersi con Bob Dylan.