Brevemondo

Israele-Iran, Nato, Cina e proteste in Kenya

La fine del conflitto israelo-iraniano, i Paesi europei e la spesa Nato, la Slovacchia tratta sulle sanzioni, terre rare e le manifestazioni in Kenya

Torniamo alle vecchie abitudini con Brevemondo. Cominciamo.

La guerra dei dodici giorni

Al termine di dodici giorni di bombardamenti da una parte e dall’altra - oltre un migliaio in totale - e a seguito dell’intervento degli Stati Uniti dello scorso 22 giugno - giusto in tempo per un’edizione speciale di questa newsletter - il conflitto tra Israele e Iran è terminato. O, comunque, lo è almeno per il momento.

La conclusione delle ostilità è stata sancita dal via libera dato dai due Paesi all’accordo di cessate il fuoco, nonostante nelle ore immediatamente precedenti dall’Iran sia stato lanciato un attacco contro la base militare statunitense di Al Udeid, in Qatar. Si tratta di un Paese terzo, non coinvolto nel conflitto: ciò avrebbe potuto facilmente portare a un’ulteriore escalation del conflitto, che però non si è verificata. Anzi: l’intervento diplomatico degli Stati Uniti, dopo aver colpito i siti nucleari di Natanz, Isfahan e Fordo, ha posto fine alle reciproche rappresaglie. Nonostante un Donald Trump piuttosto infuriato tanto con Teheran, quanto con l’alleato Benjamin Netanyahu.

Si è così concluso uno degli scontri che, in futuro, potrebbe avere conseguenze epocali in tutto il Medio Oriente. Quel che è certo, per ora, è che Washington si è riaffacciata nella regione dopo almeno un decennio in cui ha cercato di togliersi d’impiccio, così com’è evidente quanto il conflitto abbia consegnato a Israele un successo militare non da poco. Allo stesso tempo, se agli inizi dell’attacco israeliano il regime degli ayatollah sembrava in procinto di collassare, esso ha resistito ed è apparentemente sopravvissuto. Fare previsioni su ciò che accadrà nelle prossime settimane è complicato.

I Paesi della Nato e la soglia del 5%

Nella riunione dell’Aia di questa settimana, i Paesi che fanno parte dell’Alleanza Atlantica hanno sottoscritto un documento che li impegna ad alzare la propria spesa militare fino al 5% del Pil entro il 2035. Si tratta di un tema dibattuto da tempo: Trump, sin da quando è stato eletto per il suo primo mandato nel 2016, ha sempre richiesto agli alleati europei, con i suoi modi, di spendere di più in ambito militare per dare un contributo maggiormente fattivo alla Nato. Del resto, nel sistema atlantico, Washington si accolla circa un sesto delle spese.

Donald Trump e il segretario della Nato Mark Rutte [X Account]

Se l’impegno venisse rispettato, i Paesi europei inietterebbero anche nella Nato miliardi di euro: per esempio, facendo i conti soltanto sul caso italiano, spendere il 5% del Pil significherebbe, nel 2035, stanziare 145 miliardi, cento in più rispetto agli attuali 45. Secondo l’osservatorio delle spese militari Milex, tale impegno ovviamente non consisterebbe “soltanto” in un aumento di cento miliari: nell’arco dei dieci anni che ci separano dal 2035, l’Italia dovrebbe affrontare una spesa militare superiore a 400 miliardi di euro.

Per Trump si tratta di una vittoria politica netta. Del resto, l’impegno a contribuire maggiormente da parte degli europei è dettato anche dal timore che il presidente degli Stati Uniti decidesse di defilarsi dalla Nato dopo aver detto che l’attivazione dell’articolo 5 - che regola l’intervento militare dei Paesi membri a sostegno di uno di essi - “dipende dalle definizioni”. Contestualmente, però, la Spagna ha chiesto e ottenuto una deroga speciale: in breve, il primo ministro Pedro Sánchez ha garantito di poter fornire il medesimo contributo spendendo il 2,1% del Pil. Trump non l’ha presa bene, definendo la scelta “terribile” e minacciando la Spagna di farle pagare quanto risparmiato in un accordo commericale.

La Slovacchia reticente

Sul diciottesimo pacchetto di sanzioni contro la Russia disposte dall’Unione Europea la Slovacchia ha più di un dubbio. Anche se, alla fine, da parte del primo ministro Robert Fico dovrebbe arrivare il via libera, che è stato già dato per esempio sul rinnovo semestrale delle misure già in corso, il processo di adozione del nuovo pacchetto non sarà così lineare.

Robert Fico e Vladimir Putin [X Account]

Nonostante la Slovacchia, insieme all’Ungheria, sia il Paese più incline a un atteggiamento meno rigido nei confronti della Russia, Fico ha tenuto a specificare come la contrarietà al nuovo pacchetto di sanzioni non sia ideologica, ma tecnica. A preoccupare Bratislava, infatti, è più che altro il cronoprogramma del Repower Eu, il piano della Commissione Europea che mira a eliminare gradualmente le importazioni di combustibili dalla Russia entro il 2027. Per la Slovacchia, che dipende fortemente dal gas russo, il rischio è quello di veder aumentare notevolmente i prezzi.

Adesso, vista la contrarietà slovacca, la Commissione Europea dovrà scendere a patti con il Paese, che con il proprio veto può bloccare l’intero procedimento. A luglio, per questo, Ursula von der Leyen dovrebbe fare una visita proprio a Bratislava, per cercare di chiudere la faccenda. Pare, infatti, che si stia ragionando su alcune compensazioni. In ogni caso, a differenza dell’Ungheria, che si è volutamente tenuta distante, la Slovacchia ha sottoscritto il documento stilato durante l’ultimo Consiglio Europeo relativamente al supporto all’Ucraina e all’adozione di ulteriori misure sanzionatorie contro la Russia.

L’accordo tra Cina e Stati Uniti

Dopo settimane di trattative, alla fine, anche Pechino ha ufficializzato l’intesa raggiunta con gli Stati Uniti sul commercio e sulle terre rare. In breve, mentre la Cina si impegna ad accelerare le esportazioni di materie prime critiche - ovvero, essenziali nella filiera della transizione energetica e digitale - gli Stati Uniti dal canto loro rimuoveranno i dazi su alcuni prodotti cinesi, che avranno anche un trattamento doganale meno stringente rispetto al passato.

Del resto, la Cina aveva smesso di esportare verso gli Stati Uniti alcuni materiali fondamentali per l’aeronautica, l’automotive e l’industria dei semiconduttori in rappresaglia ai dazi stratosferici decisi da Donald Trump nel mese di aprile, che avevano portato a una tariffa addirittura del 145%. Oltre alla serie di negoziati che si sono tenuti a maggio - e di cui si parlava anche in un’edizione di Brevemondo - decisiva per sbloccare la situazione è stata anche una chiamata tra lo stesso Trump e il presidente cinese Xi Jinping.

Il presidente statunitense aveva anticipato così l’accordo, dandolo per fatto. Dalle parti della Cina, invece, non erano state date indicazioni in merito, almeno fino a questo momento. Per Trump si tratta tutto sommato di un successo politico, dopo quello garantito dall’accordo con il Regno Unito e in vista di altre intese, come quella con l’India, che sembrano essere vicini. Occorre, però, evidenziare anche come la strategia dei dazi, nonostante sembri dare risultati su questo versante, sia anche al centro di un dibattito sulla sostenibilità e sugli effetti a lungo termine per quanto rigurda l’inflazione e la produttività, oltre alle dispute legali tutt’ora in corso.

Grandi proteste in Kenya

Da qualche giorno, in diverse città del Kenya, sono in corso alcune manifestazioni antigovernative che hanno messo nel mirino l’operato dell’attuale presidente, ovvero William Ruto. In realtà, seppur con intensità sempre diverse, le proteste vanno avanti ormai da un anno: già nell’estate del 2024, infatti, molti manifestanti presero d’assalto il parlamento keniota per impedire l’approvazione di una legge finanziaria particolarmente rigida. Nell’occasione, morirono una ventina di persone.

Le proteste in Kenya [X Account]

A intensificare ulteriormente le proteste in questi giorni, oltre alla crisi economica e alla reintroduzione di alcune tasse su beni primari che il presidente Ruto si era visto costretto a cancellare nel 2024, c’è stata l’uccisione del blogger Albert Ojwang. Quest’ultimo, che criticava l’operato della polizia, è stato arrestato e poi è morto in circostanze poco chiare, ma i segni di violenza ritrovati sul corpo dell’uomo lasciano intendere come sia stato verosimilmente vittima di un’aggressione.

In questa settimana, durante una protesta a Nairobi, sarebbero state uccise altre 16 persone, perlopiù giovani. Dal canto suo, il presidente Ruto ha definito i manifestanti come “tribalisti senza un obiettivo”. Proprio Ruto è al centro del dibattito politico: nel 2027 scadrà il suo mandato e, in molti, si domandano se effettivamente lascerà il potere se le elezioni dovessero essergli sfavorevoli.

Il pezzo della settimana

Uno degli aspetti interessanti da tenere in considerazione dopo l’attacco sferrato dagli Stati Uniti all’Iran è quello relativo alla tenuta del movimento che sostiene Donald Trump. Contrario a immischiarsi negli affari altrui, in tutte le campagne elettorali il presidente ha ribadito la “stupidità” delle guerre che repubblicani e democratici indistintamente hanno portato avanti in giro per il mondo. Cosa ne pensa, allora, chi lo ha votato anche per questo? Apparentemente, dopo uno strappo con alcuni pezzi grossi del suo elettorato - come il giornalista Tucker Carlson, molto influente negli Stati Uniti - il MAGA movement sembra essersi compattato. Si legge qui.

La canzone della settimana

Una versione storpiata, che da Barbara Ann passa a Bomb Iran, è stata condivisa da Trump sulla sua piattaforma, Truth. Meglio godersi l’originale, però.