Brevemondo

La pace di Trump, Flotilla e shutdown a Washington

L'accordo di pace trumpiano tra Hamas e Israele, le conseguenze dell'abbordaggio della Global Sumud Flotilla e il governo statunitense bloccato

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L’accordo di pace di Trump

Sul conflitto nella Striscia di Gaza, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, come riportato nella scorsa edizione di Brevemondo, ha presentato un piano di pace in una ventina di punti. A quanto pare, avrebbe raccolto i favori dei Paesi arabi e, agli inizi di questa settimana, a margine dell’ennesima visita alla Casa Bianca, sarebbe stato accettato anche dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. Punto nodale dell’accordo è il rilascio degli ostaggi israeliani che si trovano ancora nella Striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas.

Per capire come si sarebbe evoluta la situazione, occorreva dunque una risposta proprio da Hamas. Trump aveva dato una scadenza per accettare l’accordo: su Truth, il presidente statunitense aveva di fatto lanciato un ultimatum ad Hamas, spiegando come i miliziani rimasti in vita fossero “circondati e militarmente intrappolati”, e che gli sarebbe bastato “dire una parola” affinché “le loro vite si estinguano rapidamente”. Senza un’apertura entro la giornata di oggi, “l’inferno, come nessuno lo ha mai visto prima", si scatenerà contro Hamas”. Non molte ore dopo, l’organizzazione palestinese ha diramato una nota in cui ha, di fatto, accettato il piano di pace di Trump. Ci sono, comunque, dei punti da chiarire: pur dichiarandosi favorevole al rilascio degli ostaggi, vivi e morti, Hamas ha specificato come ci siano ancora delle questioni su cui continuare a negoziare. Per esempio, sul completo disarmo del gruppo.

In ogni caso, pare di essere di fronte a quella che, a tutti gli effetti, appare una svolta per la Striscia di Gaza. Dopo aver ringraziato Hamas per aver accettato il piano di pace, seppur in parte, Trump ha affermato di nuovo sui social di credere che, ormai, “siano pronti per una pace duratura”. Per questo, ha invitato Israele a “interrompere immediatamente il bombardamento su Gaza”. Infine, ha pubblicato un video in cui ringrazia anche i Paesi che lo hanno “aiutato a elaborare tutto questo”, ovvero Qatar, Turchia, Arabia Saudita, Egitto e Giordania, sottolineando così come il processo di pace abbia coinvolto anche i principali Paesi, arabi e non, che insistono nell’area.

L’abbordaggio della Global Sumud Flotilla e le manifestazioni (nel mondo)

Appena un paio di giorni prima, le imbarcazioni della Global Sumud Flotilla che stavano cercando di forzare il blocco navale di fronte alla Striscia di Gaza sono state intercettate nella notte dalle forze armate israeliane, che hanno così arrestato e fatto sbarcare i componenti dell’equipaggio al porto di Ashdod. Ciononostante, si è creato un giallo sulla nave “Mikeno”, che a differenza delle altre sarebbe riuscita ad arrivare a destinazione, stando ad alcune fonti turche.

Quel che conta, però, è che i volontari della Flotilla sono stati fermati in acque internazionali, a circa 70 miglia dalla costa della Striscia di Gaza. Ciò, secondo il diritto internazionale, configura un’azione illegittima da parte di Israele, che non avrebbe avuto la facoltà di compiere l’abbordaggio. Nel frattempo, dall’avvenimento dell’abbordaggio gli oltre 400 componenti dell’equipaggio sono detenuti in due distinte carceri israeliane, ovvero Ketziot e Saharonim. Verosimilmente, come già accaduto ad alcuni italiani, gli attivisti saranno deportati, ma c’è chi teme che per alcuni di loro, soprattutto coloro i quali erano già entrati in contatto con le forze armate israeliane in passato, ci possano essere delle conseguenze più gravi e una detenzione più prolungata.

La manifestazione a Roma durante lo sciopero generale [X Account]

A seguito degli eventi, in molti Paesi europei si sono tenute delle manifestazioni di solidarietà verso la Flotilla e, naturalmente, verso il popolo palestinese. Nonostante alcuni abbiano parlato di proteste limitate soltanto all’Italia, dove i sindacati hanno indetto lo sciopero generale, in realtà si sono tenuti cortei ad Atene, Barcellona, Berlino, Bruxelles e Londra. Ma non solo: anche in Svizzera, Irlanda, Francia e, fuori dall’Europa, in Messico e in Malesia. Le manifestazioni in Italia, in particolare, hanno ottenuto una grande attenzione mediatica soprattutto perché connesse a uno sciopero generale organizzato dai sindacati: secondo la Cgil, l’adesione è stata del 60% e, tra le varie piazze del Paese, hanno partecipato alle proteste oltre due milioni di persone. Anche ieri, a Roma, si è svolta una manifestazione nazionale organizzata da “Giovani palestinesi in Italia”, “Comunità palestinese in Italia” e “Associazione Palestinese”. Difficile, quantomeno, ricordare una simile partecipazione per una manifestazione che ha come tema centrale una questione non direttamente legata alla politica interna. A dimostrazione, evidentemente, di una coscienza collettiva sensibile e attenta nei confronti della politica internazionale, spesso avvertita come distante o irrilevante in ambito domestico.

L’ennesimo shutdown a Washington

Con la mancata approvazione della legge di bilancio da parte del Congresso, comunque a maggioranza repubblicana, il governo degli Stati Uniti è entrato nel suo ennesimo periodo di shutdown, ovvero di vera e propria dismissione delle attività, se non essenziali. Ciò, in termini concreti, significa che circa 750mila impiegati federali non si recheranno al lavoro, né tantomeno riceveranno lo stipendio. Ciò, ovviamente, soltanto per il periodo in questione, anche se l’amministrazione Trump ha annunciato come parte di quei lavoratori saranno licenziati. Si tratta di una vecchia battaglia trumpiana: drain the swamp (“prosciugare la palude”), uno degli slogan che usava durante la campagna elettorale del 2016, stava a indicare anche questo, ovvero ridurre il pesante apparato pubblico statunitense.

Le questioni al cuore dello shutdown sono due. La prima, di carattere più generale, è relativa alla crescente polarizzazione della politica negli Stati Uniti. Non una questione nuova, certamente, ma che nella quotidianità del Congresso comincia ad avere un peso sempre più rilevante: democratici e repubblicani, che in passato avevano senz’altro posizioni meno distinguibili, oggi si trovano agli antipodi.

Il Congresso statunitense [X Account]

L’altra questione è più specifica. Perché i repubblicani non riescono a far passare una legge di bilancio nonostante si trovino in maggioranza tanto alla Camera, quanto al Senato? Il motivo è da ricercare in quest’ultimo ramo del Congresso: qui i repubblicani hanno meno dei 60 voti richiesti per far passare la legge di bilancio. Ciò dà ai democratici un bel margine di manovra per costringere la maggioranza a negoziare. Da parte loro, infatti, i democratici chiedono di finanziare misure che riguardano l’assistenza sanitaria per le persone di basso e medio reddito. In particolare, di garantire la proroga dei crediti d’imposta che, dalla pandemia in avanti, hanno permesso a milioni di persone di accedere all’assicurazione sanitaria. A ciò si aggiunge la richiesta di cestinare i tagli al programma Medicaid, approntati dal Big, Beautiful Bill trumpiano approvato in estate. Posizioni che non trovano d’accordo i repubblicani, che hanno però proposto di trovare un accordo provvisorio per ripristinare le attività del governo e continuare le negoziazioni in un secondo momento.

Il pezzo della settimana

Per approfondire meglio quale sia la situazione dopo il parziale via libera di Hamas al piano di pace proposto da Trump, il giornalista John Yoon ha delineato il quadro chiarendo le posizioni di tutti i coinvolti: Stati Uniti, Hamas e Israele. Quali sono gli effettivi punti di contatto e quali, invece, rischiano di poter far naufragare l’ennesimo tentativo di porre fine al massacro. Si legge qui.

La canzone della settimana

Questo passaggio sarà davvero quello definitivo per la pace? The answer, my friend, is blowin’ in the wind