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Dal Medio Oriente all’Ucraina?
Il discorso del presidente degli Stati Uniti Donald Trump al parlamento israeliano, la Knesset, e il vertice di Sharm el Sheik hanno rappresentato due passaggi storici per il conflitto tra Hamas e Israele. Nonostante resti piuttosto complicato immaginare la conclusione di qualsiasi tipo di ostilità - per esempio, Israele ha denunciato i ritardi di Hamas nella restituzione dei corpi degli ostaggi deceduti, rispondendo così con la sospensione della riapertura del valico di Rafah per garantire l’afflusso di aiuti umanitari - quel che rimane è un consolidamento della prospettiva statunitense per l’area mediorientale. Ovvero, un’architettura di sicurezza costruita attorno agli Accordi di Abramo, dei quali Trump è stato il primo promotore e che il suo successore Joe Biden ha comunque ritenuto la miglior strategia per garantire la pace e diminuire considerevolmente l’impegno di Washington. Proprio venerdì Trump ha detto di attendersi presto una “espansione” degli Accordi di Abramo con l’adesione dell’Arabia Saudita.
All’incontro in Egitto, com’era stato anticipato, hanno partecipato numerosi leader internazionali, compreso il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas. Non è la prima volta che quest’ultimo ha incontrato Trump, ma è il primo incontro da quando gli Stati Uniti gli hanno negato il visto per prendere parte ai lavori delle Nazioni Unite nello scorso settembre, a New York. In ogni caso, la sfarzosità del vertice e la calorosa accoglienza alla Knesset - eccezion fatta per - hanno dato grande lustro a Trump sul piano diplomatico. Una considerazione fatta non solo da certi ambienti mediatici ormai storicamente vicini al presidente - per esempio, Fox News - ma anche più critici della sua presidenza, come il The New York Times. Quest’ultimo, infatti, ha riconosciuto quantomeno il parziale successo dell’iniziativa, seppur contestando l’approccio piuttosto rude del presidente, come al solito. Ma c’è anche chi, come il Carnegie Endowment, think tank statunitense, che riprendendo - in parte - il titolo di un famoso libro proprio su Trump, ha definito il summit in modo laconico: Sound, Fury, Nothing.
E in attesa di capire se oltre alla fase 1 relativa allo scambio tra ostaggi e prigionieri palestinesi seguirà anche la seconda, assai più complicata e relativa al disarmo di Hamas e la creazione del mitologico Board of Peace, l’organismo internazionale che dovrebbe presiedere la Striscia di Gaza e che dovrebbe essere (forse) guidato dall’ex premier britannico Tony Blair, l’intesa raggiunta e siglata potrebbe fare da “rampa di lancio” per l’ennesimo tentativo di pace anche in Ucraina. A due mesi di distanza dal vertice in Alaska, infatti, Trump ha avuto una conversazione telefonica con il presidente russo Vladimir Putin, durante la quale pare siano stati fatti “grandi progressi”. Nel frattempo, Trump ha ospitato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che si è nuovamente recato alla Casa Bianca: per il momento, pare che l’ipotesi di rifornire Kiev con missili Tomahawk sia tramontata. “Si faccia la pace senza”, pare aver detto The Donald.
Golpe malgascio
In Madagascar è accaduto, all’incirca, quanto è accaduto in Nepal, ma con un finale completamente diverso. Se ricordate un precedente invio di Brevemondo, nel piccolo Paese asiatico le proteste che hanno portato alla caduta del Governo sono state animate soprattutto dai giovanissimi della cosiddetta "Generazione Z”. Simili manifestazioni di piazza si sono tenute nell’isola dell’Oceano Indiano, dove ormai da settimane il malcontento per le condizioni di vita sempre più precarie era sceso in strada. A differenza del Nepal, appunto, c’è stato l’esito di queste proteste: dopo la fuga del presidente Andry Rajoelina, a prendere il potere è stato l’esercito.
A innescare le proteste era stata la mancanza di acqua e luce, ormai diventata un problema cronico nel Paese. I più giovani sono scesi in piazza e, dopo episodi di repressione brutale come quello nella capitale Antananarivo, costato la morte di almeno 22 persone, erano riusciti a ottenere un grande risultato. Il presidente Rajoelina prima ha dismesso il Parlamento, poi quest’ultimo ha votato l’impeachment per lo stesso Capo di Stato e, alla fine, questi ha pensato bene di togliere il disturbo. Secondo quanto riportato da Reuters, infatti, Rajoelina ha stretto un accordo con il presidente francese Emmanuel Macron, che gli ha garantito una via di fuga con un elicottero militare di Parigi.
A quel punto, lo scenario è cambiato con l’intervento delle forze armate malgasce e, nello specifico, del reparto CAPSAT, ovvero Corps d’armée des personnels et des services administratifs et techniques. Nonostante dunque non si tratti di militari “operativi”, sono comunque un reparto molto in vista dell’esercito e, soprattutto, ben ammanicato con imprenditori, centri economici ed élite politiche. Basti pensare che nel 2009, quando Rajoelina salì al potere, lo fece grazie proprio ai militari del CAPSAT. E la storia, stavolta a sfavore del presidente, si è ripetuta. I soldati si sono “uniti” alle proteste dei giovani e, alla fine, hanno preso di fatto il potere con il colonnello Michael Randrianirina, capo del CAPSAT. Questi si è affrettato a dire che non si tratta di un colpo di Stato, ma l’Unione Africana e le Nazioni Unite hanno già condannato la presa di potere etichettandola proprio come golpe, tanto che la prima ha sospeso il Paese dall’organizzazione.
Per Milei scende in campo anche Trump
In questi giorni, oltre a Zelensky, alla Casa Bianca si è fatto vedere pure il presidente argentino Javier Milei, che nella prossima settimana affronterà le elezioni di medio termine, un po’ come accade proprio negli Stati Uniti. Si tratta di un momento importante per valutare la tenuta e l’apprezzamento di Milei, al potere da dicembre 2023. Per questo, il presidente argentino si è recato dal suo più grande alleato, ovvero Donald Trump, per il quale non ha mai nascosto una certa simpatia. Tant’è che il presidente degli Stati Uniti, al termine dell’incontro a Washington, ha detto che se Milei - o meglio, il suo partito - dovesse perdere le elezioni, “non saremo così generosi con l’Argentina”.
Del resto, gli Stati Uniti nei giorni scorsi hanno lanciato “un salvagente” da 20 miliardi di dollari a Buenos Aires, in modo da far respirare momentaneamente l’economia argentina, storicamente in gravi difficoltà. Una mossa che il segretario al Tesoro statunitense, Scott Bessent, ha definito come “misura eccezionale” per far sì che sia data “stabilità ai mercati”. Vista la vicinanza delle elezioni argentine, comunque, c’è da pensare che i 20 miliardi non siano stati recapitati soltanto per dare “stabilità ai mercati”, quanto per far sì che lo stesso Milei possa presentare all’elettorato un risultato.
Per quanto riguarda le elezioni, la preoccupazione principale di Milei è che dopo lo scorno dello scorso settembre, le urne possano decretare ancora una volta la debolezza del suo partito, La Libertad Avanza. Poco più di un mese fa, infatti, nella provincia di Buenos Aires il partito di Milei ha ottenuto poco meno del 34%, mentre Fuerza Patria, formazione di matrice peronista, ha conquistato il 47%. Una sconfitta che poteva essere preventivata, visto che Buenos Aires e dintorni sono solitamente schierati sul fronte di quello che, alle nostre latitudini, potremmo chiamare “centrosinistra”, con tutte le precauzioni del caso. Ma il margine è stato più ampio del previsto: non un buon viatico per le elezioni della prossima settimana.
Il pezzo della settimana
Che cosa sono i missili Tomahawk e perché potrebbero cambiare la storia della guerra in Ucraina se gli Stati Uniti decidessero di consegnarli a Kiev? Per il momento, Trump non pare più molto intenzionato a farlo. Ma capire perché e come queste armi potrebbero dare una svolta è importante. Per farsi un’idea, c’è un articolo del The New York Times. Si legge qui.
La canzone della settimana
Per i manifestanti del Madagascar, soppiantati dall’esercito, una canzone dei Rolling Stones. Che esprime tanta polemica, ma anche tanta desolazione.