Alla fine Trump e Putin si sono parlati
Nelle edizioni precedenti di Brevemondo i riferimenti alla telefonata tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente della Russia Vladimir Putin sono stati tanti. Alla fine, i due si sono parlati davvero, in una telefonata durata quasi due ore e che segna l’ennesimo elemento da tenere in considerazione per il futuro prossimo della guerra in Ucraina.
Gli argomenti sono stati tanti: dal miglioramento delle relazioni tra Washington e Mosca alla situazione del Medio Oriente, passando anche per una suggestiva ipotesi di organizzare alcune partite di hockey tra giocatori statunitensi e giocatori russi. Al centro, però, non poteva che esserci l’ormai lunga discussione su un possibile cessate il fuoco tra Kiev e Mosca. Va detto, comunque, che non sembra essere stato raggiunto un punto di svolta: Putin avrebbe consentito di porre fine agli attacchi sulle strutture energetiche ucraine. Niente di più, anche se l’amministrazione statunitense ha fatto riferimento anche ad attacchi “contro le infrastrutture”, in modo più generico.
Insomma, la richiesta di Trump su un cessate il fuoco totale per trenta giorni, in modo da dare concretamente il via alle trattative, non sarebbe stata accolta. Almeno per il momento. Secondo alcuni, per sbloccare lo stallo, Putin vorrebbe garanzie maggiori, in particolare sul riconoscimento della Crimea come parte del territorio russo. La storia recente della penisola è nota: nel 2014, a seguito di un referendum contestato dalla comunità internazionale, la Crimea è stata de facto annessa da Mosca. Per questo, alcuni hanno fatto riferimento a una riflessione di Trump sull’argomento, anche se non pare sia effettivamente in corso.
Israele non ha rispettato la tregua
Nel pieno della notte, l’aviazione israeliana ha bombardato la Striscia di Gaza, provocando centinaia e centinaia di morti secondo le stime del ministero della Salute di Hamas. Questo attacco ha posto fine alla tregua che lo Stato d’Israele e, appunto, Hamas erano riusciti a mantenere dallo scorso 19 gennaio, dunque per oltre due mesi.
La prima fase della tregua era terminata nei primi giorni di marzo. A seguire, doveva aprirsi una seconda fase, dedicata all’approfondimento del dialogo tra le due parti per arrivare, finalmente, alla conclusione del conflitto. Così, però, non è stato e, già da alcuni giorni, si intuiva come le intenzioni del governo presieduto da Benjamin Netanyahu non fossero quelle di continuare nelle trattative. Del resto, già agli inizi del mese, Israele aveva provveduto a tagliare ogni collegamento verso la Striscia, impedendo così l’ingresso degli aiuti umanitari e dei generi di prima necessità.
La ripresa del conflitto da parte di Israele sembra seguire la linea logica che Netanyahu ha mantenuto sin dall’inizio: proseguire nella guerra, infatti, garantisce la sopravvivenza del suo esecutivo, che potrebbe incontrare non pochi problemi nell’eventualità di una fine delle ostilità. Inoltre, l’attacco permette al premier israeliano di riaccogliere il partito fondamentalista e di estrema destra dell’ex ministro Itamar Ben-Gvir, che con l’inizio della tregua aveva deciso di abbandonare la maggioranza. Adesso, rimpinguata la propria base di voto, il governo può anche approvare il bilancio dello Stato, che potenzialmente ne metteva in pericolo la stabilità.
A che punto è il ReArm Europe?
Il piano ReArm Europe, annunciao dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e approvato dal Parlamento europeo, è nella fase decisiva per la sua articolazione. Prima della seduta del Consiglio europeo degli ultimi due giorni, infatti, i contorni del piano stesso erano piuttosto laschi: gli 800 miliardi paventati da von der Leyen, di fatto, erano prevalentemente una cifra stimata.
Dopo il summit tra i capi di Stato e di governo, cui partecipa di diritto anche la presidente della Commissione europea, innanzitutto il piano ha cambiato nome: adesso si chiama ReArm Europe - Readiness 2030, ovvero “prontezza 2030”, anno entro il quale, secondo le intelligence di Germania e Danimarca, Mosca dovrebbe mettere alla prova la tenuta della Nato, sfidandone l’articolo 5. Ciò, in poche parole, significa che la Russia, entro il 2030, potrebbe attaccare un Paese membro dell’Alleanza atlantica, innescando l’attivazione della difesa da parte degli altri Stati. Facendo ricorso, se necessario, all’“uso della forza armata”.
Ben più importante, comunque, è la pubblicazione del Libro bianco dell’Unione europea, redatto dalla Commissione europea e dal Servizio di azione esterna. In esso vengono delineati in maniera più chiara i contorni del ReArm, centrato su due pilastri: il primo è il cosiddetto Safe, ovvero Security and Action for Europe, un fondo di 150 miliardi di euro per quattro anni per prestiti vantaggiosi rivolti all’acquisto di armamenti tra due Stati, uno dei quali dev’essere necessariamente un Paese membro; quindi, la possibilità di derogare al Patto di stabilità per eventuali spese ulteriori in materia di difesa, fino all’1,5 % del Pil.
La Cina tra i volenterosi
Alcune indiscrezioni diplomatiche hanno fatto riferimento, nelle ultime ore, alla possibilità che tra i “Paesi volonterosi” possa esserci anche la Cina. I “Paesi volenterosi” sono quegli Stati che, nelle ultime settimane, hanno espresso la propria disponibilità a fornire truppe per una reassuring force da inviare in Ucraina per far sì che vengano rispettati gli accordi di pace e che Kiev non sia nuovamente oggetto di aggressione da parte della Russia.
A lanciare il progetto, tra i vertici di emergenza di Parigi e Londra, sono state proprio Francia e Regno Unito. Allo stato attuale, secondo una portavoce del premier britannico Keir Starmer, sarebbero oltre trenta i Paesi disposti a prendere parte alla missione. Ed è appunto a questi che Pechino starebbe valutando di unirsi, per giocare finalmente un ruolo diretto e riconoscibile nel conflitto in Ucraina.
Un cambio di approccio radicale per la Cina, che dal 2022 in avanti ha sempre mantenuto una posizione piuttosto ambigua sulla guerra. Pechino non ha mai condannato esplicitamente l’aggressione russa, anzi: sfruttando la situazione internazionale, con le sanzioni e gli embarghi contro Mosca, la Cina è riuscita in poco tempo a diventare il principale partner economico e commerciale della Russia. Ciò ha reso quest’ultima fortemente dipendente da Pechino, unico acquirente delle sterminate risorse energetiche e petrolifere siberiane. Inoltre, il prolungarsi del conflitto non ha fatto altro che avvantaggiare la Cina nei confronti degli Stati Uniti, impegnati fino alle scorse settimane a sostenere economicamente e militarmente l’Ucraina. A fronte della nuova impostazione dat da Trump, la Cina potrebbe aver deciso di cambiare strategia.
Il sindaco di Istanbul è stato arrestato
Il sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, è stato arrestato nei giorni scorsi con l’accusa di corruzione e di favoreggiamento del terrorismo. Da qualche ora è stato trasferito in tribunale, dove i giudici dovranno decidere se convalidare l’arresto. Imamoglu è il principale oppositore politico del presidente Recep Tayyip Erdogan e, anche per questo, il suo arresto ha fatto immediatamente scattare grandi polemiche di piazza, rivolte anche allo stesso Erdogan.
L’arresto di Imamoglu è arrivato proprio pochi giorni prima delle primarie interne al partito Cumhuriyet Halk Partisi, ovvero il Partito popolare repubblicano, la prima forza di opposizione contro Erdogan. Tutte le previsioni davano proprio Imamoglu come sicuro vincitore e, per questo, prossimo sfidante dell’attuale presidente. Il leader del partito, Özgür Özel, ha definito l’arresto di Imamoglu come “un colpo di Stato contro il nostro futuro presidente”.
Da parte sua, Erdogan ha accusato l’opposizione di creare instabilità e caos in Turchia, aizzando la folla e organizzando manifestazioni di solidarietà per Imamoglu, che sono arrivate a radunare centinaia di migliaia di partecipanti. Quel che è certo, al momento, è che l’arresto del sindaco di Istanbul e le successive proteste hanno creato una certa apprensione a livello economico: dall’alt a Imamoglu alla chiusura dei mercati, il principale indice della borsa di Istanbul ha perso il 16%. Contestualmente, la lira turca ha perso l’11% del suo valore in confronto al dollaro.
Il pezzo della settimana
Sulla svolta impressa da Trump alla politica estera statunitense ci siamo ripetuti più e più volte: in Ucraina, ma anche in Medio Oriente, con il recente attacco agli houthi, la nuova amministrazione sta cercando di risolvere le grandi questioni sul tavolo con altrettanta grande rapidità. E se secondo alcuni sta funzionando bene, per altri il rischio è di non ottenere soluzioni durature per i conflitti in corso. Come Michal Shear, che lo spiega qui.
La canzone della settimana
La chiamata tra Trump e Putin è durata molto, ma nonostante ciò, la soluzione al conflitto in Ucraina pare ancora lontana. E se, come viene riportato, il presidente degli Stati Uniti ha aspettato addirittura un’ora prima di parlare con il presidente russo, la canzone della settimana non può che essere sull’attesa di un amico.
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