Brevemondo

Siria-Usa, fine dello shutdown e Sudan

Un ex membro di al-Qaeda accolto a Washington da Trump, lo shutdown finisce come volevano i repubblicani e quel che sta accadendo in Sudan

Benvenuti su Brevemondo. Cominciamo.

Un presidente siriano alla Casa Bianca

Da capo dei ribelli sostenuti da al-Qaeda a primo capo di Stato della Siria a incontrare un presidente degli Stati Uniti alla Casa Bianca. Parabola unica quella di Ahmad al-Shara, noto anche come al-Jolani, che in questa settimana ha viaggiato sino a Washington per incontrare il suo omologo Donald Trump, dopo che questi ha rimosso le storiche sanzioni degli Stati Uniti nei confronti della Siria a seguito della caduta del regime filoiraniano al-Assad. Il confronto è arrivato al culmine di un vero e proprio tour mondiale di al-Shara, che dopo essersi autoproclamato presidente a Damasco, si sta spendendo per dare di sé un’immagine moderata e affidabile.

A Washington, però, al-Shara non ha ricevuto l’accoglienza standard che viene riconosciuta ai capi di Stato, bensì una più in sordina, dovuta evidentemente al fatto che fino a pochi giorni prima gli Stati Uniti avevano posto una taglia da dieci milioni di dollari sulla sua testa. Ciò che conta, però, è che, per il momento, i piani di Washington e Damasco sembrano combaciare: da un lato, gli Stati Uniti vogliono assicurare una certa stabilità in Medio Oriente arginando l’Iran, in modo da poter diminuire il proprio impegno diretto; dall’altro, invece, la Siria sta cercando una propria collocazione al di fuori dell’influenza di Teheran, appoggiandosi prevalentemente sulla Turchia, sui Paesi del Golfo e, appunto, sugli Stati Uniti. Non solo: Damasco ha anche accettato di far parte della coalizione che combatte ciò che resta dello Stato Islamico.

Trump e al-Sharaa [X Account]

L’intesa raggiunta con al-Shara è esemplare per il modo di fare politica internazionale da parte di Trump come rappresentante di una certa idea di America. Fare affari con chi, soltanto poco prima, era un nemico mortale degli Stati Uniti, è tollerabile per un solo motivo: diminuire l’impegno statunitense nel mondo e, di conseguenza, l’esborso che ciò comporta. Serve una certa dose di pragmatismo - anche alcuni esponenti del movimento MAGA hanno esternato il proprio scetticismo sul riavvicinamento con Damasco - ma è proprio il caso di dire che il fine giustifica i mezzi. Una foto alla Casa Bianca con un ex esponente di al-Qaeda, a ventiquattro anni dall’attacco alle Torri Gemelle, non passa certamente inosservata. Ciò che sta a cuore a Trump, e a chi lo ha votato, è però altro. Se quella foto sarà il primo passo per arrivare a un equilibrio regionale più favorevole agli Stati Uniti in Medio Oriente, magari con una normalizzazione vera e propria tra Siria e Israele, allora ne sarà valsa la pena.

È finito lo shutdown

Con la firma dell’accordo legislativo per mettere fine allo shutdown amministrativo degli Stati Uniti si è conclusa la più lunga sospensione delle attività governative nella storia del Paese. Il nuovo record di 43 giorni ha infatti battuto il precedente del 2019, verificatosi anche all’epoca durante la presidenza di Trump. La situazione si è sbloccata grazie al voto avvenuto alla Camera dei rappresentanti, in cui il pacchetto di fondi elaborato dai deputati del Partito Repubblicano è stato adottato con 222 favorevoli e 209 contrari: ci sono stati anche sei voti da parte dei democratici, che si sono uniti alla maggioranza. Pochi giorni prima, al Senato, lo stesso pacchetto era stato adottato con 60 voti contro 40: anche in questo caso, alcuni democratici hanno scelto di appoggiare la proposta dei repubblicani, disobbedendo alla propria leadership.

Avendo sottoscritto quest’ultima, per Trump la fine dello shutdown è a tutti gli effetti un successo: il governo federale può riprendere le proprie funzioni senza che siano state fatte delle concessioni significative all’opposizione dei democratici. Questi ultimi, come spiegato in un’edizione di Brevemondo di oltre un mese fa, intendevano infatti estendere i sussidi per i pagamenti delle assicurazioni sanitarie per le persone di basso e medio reddito, attraverso la proroga di un meccanismo basato sui crediti d’imposta e introdotto per la prima volta durante la pandemia da Covid-19. Alla fine, non c’è stata alcuna proroga, né tantomeno estensione.

La Camera dei rappresentanti [X Account]

Le principali conseguenze della fine dello shutdown riguarderanno, innanzitutto, i dipendenti pubblici degli apparati federali, quantomeno quelli non già licenziati, che torneranno al proprio posto di lavoro e, ovviamente, torneranno a ricevere uno stipendio. Ciò almeno fino al 30 gennaio, perché la proposta repubblicana ha indicato questa prima, temporanea scadenza. Inoltre, sono stati sbloccati i fondi del Dipartimento per l’Agricoltura, che si occupa dei cosiddetti food stamps, ovvero i buoni pasto che vengono assegnati alle famiglie a basso reddito. Infine, dovrebbe tornare anche regolare il traffico aereo: in una sola giornata della scorsa settimana, per esempio, sono stati infatti cancellati oltre 2.700 voli e altri 10mila hanno avuto grossi ritardi. Tutto ciò dipende dal fatto che i controllori del traffico aereo, negli Stati Uniti, sono impiegati della Federal Aviation Administration, un’agenzia federale rimasta, come tutte le altre durante lo shutdown, senza soldi.

Che cosa sta succedendo in Sudan?

Dalle nostre parti, soprattutto negli ultimi giorni e come contraltare alle manifestazioni a favore della Palestina - come se ci fosse bisogno di opporre a una tragedia un’altra tragedia per risolverle entrambe - si è parlato di quanto a nessuno interessi ciò che sta accadendo in Sudan. In realtà, nel Paese africano è in corso una guerra civile che va avanti dall’aprile 2023 e che, va detto con onestà, non ha mai ottenuto grandi titoli in Italia, neppure prima del 7 ottobre del medesimo anno. Quel che è certo è che, da settimane, diverse agenzie internazionali, comprese quelle che afferiscono alle Nazioni Unite, hanno affermato tutte la stessa cosa: in Sudan sta avvenendo la più grave crisi umanitaria di sempre, con 13 milioni di persone sfollate e quasi metà della popolazione totale soggetta a “insicurezza alimentare”.

Come detto, si sta combattendo un conflitto tra forze interne al Sudan stesso: ci sono le Forze Armate sudanesi, sotto il comando del generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Rapid Support Forces (Rsf), ovvero un gruppo paramilitare di matrice araba creato da Omar al-Bashir e che, oggi, è guidato dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto con il soprannome Hemedti. A marzo di quest’anno, l’esercito ha riconquistato la capitale Khartoum e le Rsf hanno ripiegato nel Darfur, mettendo in piedi un governo parallelo. In questa regione, alla fine di ottobre, il gruppo di Hemedti ha annunciato di aver conquistato El Fasher, ultimo bastione di al-Buhran nella zona.

Mohamed Hamdan Dagalo [X Account]

Proprio la fine dell’assedio durato un anno e mezzo ha spinto in queste ultime ore il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a prendere in esame l’emergenza umanitaria di El Fasher. Secondo quanto ricostruito da Reuters, il Consiglio avrebbe adottato una risoluzione in cui si fa esplicito riferimento a uccisioni a sfondo etnico, allo stupro usato come arma e all’uso diffuso di torture. Nel frattempo, proprio mentre è al vaglio il caso delle violenze compiute dalle Rsf durante il conflitto di El Fasher, gli Emirati Arabi Uniti hanno negato per l’ennesima volta di essere in alcun modo coinvolti nel supporto proprio a Hemedti. Del resto, gli Emirati Arabi fanno parte del quartetto di Paesi, insieme ad Arabia Saudita, Egitto e Stati Uniti, che sta cercando di mediare tra le parti, al momento senza successo.

Il pezzo della settimana

“Ricostruzione e marines”. Il titolo de il manifesto sull’incontro tra al-Sharaa e Trump riassume la “dote” che, secondo la testata, l’autoproclamato presidente siriano avrebbe portato al newyorchese. Ovvero: consegnare agli Stati Uniti la fetta più grande della ricostruzione del Paese, dilaniato da una guerra decennale, e il lasciapassare per i marines in una base militare nelle vicinanze di Damasco. Oltre, come detto, a una possibile normalizzazione con Israele. Si legge qui.

La canzone della settimana

Per far finire uno shutdown di 43 giorni dev’essere servita molta, molta pazienza.