Benvenuti su Brevemondo. Cominciamo.
La guerra in Ucraina, nonostante tutto
L’incontro in Alaska tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin ha innescato una serie di conseguenze. Tra queste, al momento, non c’è però né un cessate il fuoco, né la pace. La prima, evidente conseguenza è stato l’incontro tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che si è rapidamente tramutato in un vertice collettivo con i leader europei, che uno dopo l’altro hanno annunciato che sarebbero stati con lui alla Casa Bianca. E una delle ulteriori conseguenze è stato proprio il percettibile cambio di approccio al tema da parte di alcuni di loro.
Tutti, infatti, sono apparsi piuttosto disponibili a un eventuale bilaterale tra Zelensky e Putin, così come auspicato da Trump, e che Kiev e Mosca potessero confrontarsi sulle sistemazioni territoriali. Chiaramente, non tutti hanno dimostrato lo stesso grado di convinzione: il presidente francese Emmanuel Macron, per esempio, non ha usato toni leggeri su Putin e sulla Russia, mentre il cancelliere tedesco Friedrich Merz ha ribadito la necessità di un cessate il fuoco prima dei negoziati, venendo rapidamente rimbrottato da Trump.
In generale, però, durante l’incontro di Washington è stato dato il beneplacito alla strategia di Trump: i leader europei, volenti o nolenti, hanno avallato il piano che tralascia il cessate il fuoco e che punta direttamente alla pace. Ciò, ovviamente, lascia aperte le ostilità - che proseguono, quotidianamente - e rende sempre più probabile la “soluzione coreana”, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Lo si evince dal fatto che la maggior preoccupazione dei Paesi europei è stata la definizione delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina una volta raggiunto un accordo con la Russia. Un tema tutto europeo, o quasi: dal Pentagono, infatti, hanno fatto sapere che gli Stati Uniti avranno un ruolo marginale in questo ambito.
Alle armi, alle armi!
Altra conseguenza dell’incontro tra Trump e Putin, allora, è quella di aver sollevato per l’ennesima volta la questione di un impegno militare diretto - seppur in forma, potremmo dire, di peace-keeping - da parte dei Paesi europei. Ciclicamente, il tema viene riproposto e, a causa della guerra in Ucraina, negli ultimi mesi si è fatto sempre più annoso. Già a febbraio scorso, per esempio, alcuni Paesi avevano avanzato l’idea di un coinvolgimento diretto, in particolare Francia e Regno Unito.
Secondo Trump, stavolta a Parigi e Londra si sarebbe unita anche Berlino, che avrebbe garantito la possibilità di inviare in Ucraina un fronte per dare sostanza alle garanzie di sicurezza per Kiev. In realtà, il cancelliere Merz ha parlato semplicemente di un’ipotesi, che dovrebbe in ogni caso ricevere il via libera dal parlamento tedesco. Quel che appare certo è che dopo l’eventuale accordo di pace tra Ucraina e Russia, come anticipato dal Pentagono, gli Stati Uniti non saranno in prima fila: lo ha ribadito anche il vicepresidente J.D. Vance, che ha spiegato come Washington si aspetti che siano proprio i Paesi europei a farsi carico di tale sforzo.
A Francia, Regno Unito e, forse, Germania non sembra si allineerà l’Italia. O, almeno, parte dell’esecutivo non pare affatto propenso a fare tale scelta: il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini, commentando l’ipotesi di truppe italiane in Ucraina, ha invitato Macron a fare da solo, mettendosi “caschetto, giubbetto, fucile”. Parole che hanno scatenato un doppio fronte di crisi: esterno, con l’ambasciatrice italiana a Parigi che è stata convocata dal Governo francese; e interno, con le evidenti differenze di vedute interne all’esecutivo di Giorgia Meloni, che si è affrettata comunque a chiarire come le posizioni di politica estera italiane sono affidate esclusivamente a lei e al ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Papa Leone XIV e le isole Chagos
Storicamente, i pontefici hanno svolto spesso e volentieri il ruolo di mediatori in alcuni contesti internazionali. Sia a livello formale, dunque riconosciuto ed effettivo, come per esempio nel conflitto del Beagle tra Argentina e Cile, sia a livello informale - quello che gli esperti chiamano moral suasion - come accadde per esempio nei giorni della crisi missilistica di Cuba. Recentemente, questo ruolo è stato assunto anche da papa Leone XIV per il caso delle isole Chagos.
Queste ultime, un arcipelago situato nell’Oceano Indiano, hanno fatto parte del territorio di Mauritius fino agli anni Sessanta, quando il Paese era ancora parte dell’impero coloniale britannico. Le isole Chagos sono state quindi separate dal resto di Mauritius per dar vita a una importante base militare; non solo, perché gli abitanti dell’arcipelago sono stati forzatamente trasferiti altrove, divenendo veri e propri rifugiati. Dopo decenni di pressioni, Mauritius e Regno Unito hanno raggiunto un accordo nello scorso maggio, che ristabilisce la sovranità del Paese africano sull’arcipelago e riserva a Londra il diritto di restare con la propria base militare sull’isola maggiore, Diego Garcia, con un contratto di 99 anni.
Proprio nelle scorse ore, il pontefice ha incontrato in Vaticano alcuni rifugiati delle isole Chagos, esponendosi in loro favore e portandone l’esempio per altre questioni internazionali. Leone XIV, infatti, ha detto come il ritorno dei rifugiati nell’arcipelago pone fine a “un’ingiustizia” e che “tutti i popoli, anche i più piccoli e i più deboli” devono assolutamente “essere rispettati dai potenti nella loro identità e nei loro diritti”, con particolare riferimento a quello di “vivere nelle proprie terre”. Un messaggio che, nel contesto della guerra arabo-israeliana, ha avuto per molti una valenza anche simbolica.
Il pezzo della settimana
In tanti - tantissimi - hanno ironizzato e commentato la foto dei leader europei a colloquio con Trump nello studio ovale. Il presidente statunitense seduto alla sua scrivania e gli altri sulle sedie di fronte, un po’ come se fosse una lezione in aula. Al di là delle scenografie, che non ci interessano, la critica più comune è stata quella di un certo asservimento dei leader europei nei confronti di Trump. Una lettura possibile, certamente, ma che forse non tiene di conto di un fattore di cui occorre ragionare: le forze in campo. Gli Stati Uniti - non dall’elezione di Trump - sono il Paese egemone con cui i Paesi europei devono fare i conti, che gradiscano il presidente pro tempore o meno. Il giornalista de Il Corriere della Sera, Federico Rampini, ne ha scritto. Si legge qui.
La canzone della settimana
Se i “volenterosi” invieranno davvero delle truppe in Ucraina, ci saranno di nuovo dei brothers in arms.