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sabato 27 aprile 2024

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Divertenti corrispondenze

di - lunedì 22 gennaio 2024 ore 09:00

Cerco spesso, quando vado a raccontare i libri nel mio blog, di trovare corrispondenze e analogie tra i testi e gli autori e, quando le trovo, non grido Eurekaaa! , ma le evidenzio. I libri che racconto in questo numero, di analogie ne hanno e parecchie. La prima riguarda la data di pubblicazione. Alibi di Fabrizio Bartelloni esce a marzo del 2023, Nomi senza cognomi nel giugno dello stesso anno. Seconda analogia: sono pubblicati entrambi da MdS, piccola, militante e gloriosa casa editrice di qualità, pisana. Terza analogia: Fabrizio Bartelloni è direttore editoriale della collana Cattive strade (MdS) che ospita il libro di Santoni, libro del quale Bartelloni è stato scopritore prima ed editor poi. Quarta ed ultima analogia: sono libri di racconti. Mi sarebbe piaciuto concludere dicendo che coincidono anche nel numero, ma non posso: i racconti di Santoni sono 12, quelli di Bartelloni, 20 più sei stanze di vita quotidiana (ballate)

Però, però, un’altra analogia, forse la più significativa, io ce l’ho trovata. Perché, nonostante la diversità dei registri linguistici, dei contesti narrati, del sistema dei personaggi e delle modalità narrative, vedo dietro entrambi i narratori l’ombra di messer Giovanni Boccaccio e cercherò di motivare qui sotto questa suggestione archetipica.

Con il Decameron raggiunge la sua forma più compiuta il genere della novella che ha per fine l’intrattenimento, l’evasione, il piacere che nasce dal seguire casi avventurosi, dal motto pungente e arguto, dalla vicenda sentimentale felice o infelice, dalle situazioni maliziose ed erotiche, dalle beffe. Ebbene, questi ingredienti nelle storie di Bartelloni e Santoni ci sono tutti e forse persino qualcuno in più ed anche i personaggi che Boccaccio raccontava nel 1348, quasi avessero fatto un salto epocale, sono catapultati sotto diverse spoglie, in molti di questi racconti.

Caro lettore, divertiti a cercarli!

FABRIZIO BARTELLONI

ALIBI

Impensabile iniziare il racconto di questo libro, senza riportare per esteso l’ottima prefazione del mio storico amico e compare Daniele Luti.

Nella nostra letteratura c’è, a cominciare dai latini per approdare al medioevo e, con forme ancora più sofisticate e complesse, all’età moderna, una lunga traccia di genere umoristico. E’ un tratto sottile, funambolico, affidato alla sfumatura, all’aprodokèton, a una strana combinazione, tra l’aforisma, il calembour, il paradosso e la provocazione crio/logica. Questa linea è possibile rintracciarla in scrittori facinorosi del “trasformismo lessicale” e della parodia basata sui camuffamenti fonetici, sulla frustata velocissima alla maniera del geniale Gino Patroni, famoso per aver raccontato in modo fulmineo e impeccabile la miseria attraverso la parodia di una celeberrima lirica quasimodiana: «Mensa popolare – Una zuppa di verdura ed è subito pera.»

Ecco, la perfida raccolta di racconti di Bartelloni è tutta dentro questo genere, questa linea che è stata di Achille Campanile, Ennio Flaiano, Tommaso Landolfi, alla quale lui aggiunge lo scoramento, la noia esistenziale di chi, nel mentre assiste alle solite guerre, alla fame diffusa, agli integralismi ideologici degli altri, è costretto anche alla prigionia, a essere ostaggio dei virus e della stupidità, spesso per conto terzi, degli altri.

Bartelloni, quando ha iniziato il suo lungo viaggio attraverso le diverse e straordinarie varianti della multiforme imbecillità totale di carattere plebeo e piccolo borghese (miscela esplosiva la congiunzione del ceto impiegatizio e del sottoproletariato), ci ha regalato situazioni paradossali in itinere, ma dalla chiusura spesso attendibile. Del resto, in un mondo che non impara dal passato, che fa a meno della memoria e della storia, non possiamo immaginarci finali di genio. Lo stupido, lo sbruffone, il contabile finiscono sempre per essere beffati. Come il celeberrimo sbattitore di donne sugli scogli, e per questo soprannominato il Polpaio, che, interrogato come esperto di estesi rapporti sessuali, di risolvere il “giallo” della identità di una donna di Marina di Pisa diventata famosa per un tatuaggio gluteico mostrato durante un film porno, finirà per scoprire che è sua moglie. Ma, a differenza di quello che accade in altre forme letterarie, qui, in questo creativo esercizio di stile di Bartelloni, la beffa, la perfidia non nascono da colpe o difetti morali dei personaggi, ma dal modo in cui è concepito il meccanismo del mondo. Mi viene in mente un folgorante aforisma legato a un umorismo che, come quello di Bartelloni, nasce dal sentirsi irrequieti osservatori del labirinto che ci ospita e nel quale onoriamo la nostra parte di esseri resi diversi dalla confidenza con le leggi solo intuibili del creato: «L’impazienza di Dio nel pubblicare il mondo non finisce di sbalordirmi. Cose così si tengono nel cassetto per sempre.» (Gesualdo Bufalino, Il malpensante, 1987)

Credo meriti concludere questo “ammiccamento” al lettore della epitome bartellonica con qualche considerazione sul registro linguistico usato dallo scrittore. Ha creato qualcosa di molto simile a un affresco lessicale. I periodi come espressioni partorite con la velocità che serviva per stendere il colore sull’intonaco fresco. Ricorro a questa complicata costruzione retorica per rendere l’idea della padronanza di una lingua intuita come patria, come strumento per comunicare intenzioni e fatti e per fare avvertire, nella struttura architettonica della sintassi, anche il calore di un timbro orale ricco di richiami anche “dialettali”. Queste scelte conferiscono alla silloge una strana magia. Mentre si legge, ci immaginiamo di stare in un gruppo di cultori della brillantezza e della estemporaneità con qualcuno che intrattiene, coordina, dirige un gioco di piacevoli intrattenimenti come pretesto per impartire dei consigli su come beffare, non il destino, ma le diverse trappole che la vita ci mette sulla strada. Pagine vigorose, divertenti e divertite, tenendo anche di conto di una cosa molto seria scritte sul ridere e sul riso: «Chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.» La frase è di Giacomo Leopardi ed è stata richiamata da Alessandro Minervini, in margine a uno scritto sulla letteratura umoristica italiana e non solo, anche come consiglio ad autori che magari non sanno a chi ispirarsi per scrivere storie ironiche. Per chi voglia scrivere opere umoristiche, raccomando la lettura delle opere di Giacomo Leopardi. E non è certo ironia, la mia. In particolare consiglio Operette morali, Zibaldone e Discorso sui costumi degli italiani

Riporto qui di seguito una mia riflessione sul libro, che trova una corrispondenza con il testo di Daniele nei riferimenti che entrambi abbiamo individuato su Leopardi.

Alibi, ovvero l’umorismo crudele di Fabrizio Bartelloni.

L’ altrove (è questo il significato dell’avverbio latino alibi) in cui ci precipitano le venti storie di Bartelloni delinea un microcosmo in cui il grottesco, in connubio col paradossale, fa scaturire un umorismo nero (humour noir, direbbe Breton) che è poi la cifra stilistica di queste storie crudeli.

Ho pensato subito, fin dalle prime pagine di questo libro ai “Racconti crudeli” di Auguste De Villers De l’Isle Adam,(siamo a fine ‘800) sospesi tra humour e dramma dove la realtà si popola di fantasmi e il fantastico si nutre di elementi reali, ma le affinità, in questo caso, si limitano solo al titolo e all’aggettivo “crudeli”.

Non a caso, “l’amico mio e non della ventura”, Daniele Luti, nella sua ottima prefazione definisce “perfida” questa raccolta, individuando inoltre una vis comica che è stata di Campanile, Flaiano e Landolfi a cui aggiungerei comunque, come archetipi genetici, Rustico Filippi e Pietro l’Aretino, visto che spesso la narrazione del Nostro vira su spericolati versanti erotici.

I “quadretti” che aprono e chiudono, in una sorta di circolarità, le storie (Ciao amore ciao e Girotondo), fin dall’inizio si caratterizzano per due precise peculiarità: la rapidità e lo straniamento. Sembrerebbero, a prima vista, segmenti minimalisti alla Carver, ma solo superficialmente. In Carver la narrazione è sospesa, spesso indefinita, non succede mai niente; c’è solo un racconto “ Meccanica per tutti” presente in “ Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” in cui marito e moglie si litigano il figlio e lo strattonano per le braccia talmente forte che finiscono per ammazzarlo, che potrebbe somigliare per paradosso ai racconti di Alibi dove può capitare di incontrare un uomo che, convinto dei tradimenti della moglie , quando scopre che non era vero, la uccide, per essere “incoerente”, o di un altro che, abbandonato dalla sua donna non “riesce a darsi pace” per questa scomparsa e cerca risposte, dopo averla scopata, dalla sorella di lei o a Francesca, donna realizzata, che, quando sua sorella ebbe due gemelli, per la gioia si buttò dal sesto piano per finire con Laura che, dopo aver cresciuto con immenso amore sua figlia Lavinia, viene poi uccisa da lei. E anche i quadretti che concludono la raccolta presentano personaggi le cui vite si intrecciano in modo caotico, in una sorta di bizzarro girotondo tra amori etero e non, tradimenti e noie esistenziali, che alla fine si ritrovano ai funerali di uno di loro, Federico, che aveva scelto di vivere da solo per godere così della libertà di suicidarsi. E qui, con un coup de théatre, o finale a sorpresa, l’autore diventa personaggio e , parodiando il Flaubert, di “Madame Bovary c’est moi” dirà Federico sono io.

Sembra, leggendo questi racconti, di imbattersi in storie di ordinaria follia (ma qui Bukowski, a parte i siparietti erotici, non c’entra niente) dove si incontrano un Casanova casereccio, tale Danilo Bronzetti, detto il “Polpaio” “perché faceva girare la testa alle donne per poi sbatterle nottetempo sugli scogli” che rimane folgorato nello scoprire che la star locale dei filmetti porno è proprio sua moglie Silvana o l’avvocatessa Marcella Devoti, incubo dei cancellieri e dei palazzi di giustizia, che si presenta in modo ossessivo anche nei giorni prefestivi a reclamare pratiche da esaminare o il dottor Roberto Lazzerini che finirà soggiogato e letteralmente “dominato” dalla sua paziente Elena Bartoli.

Poi, come intermezzo, le ballate che ricordano nel titolo l’omonima raccolta di Stefano Benni; ballate che raccontano spaccati di vita, sospesi tra l’amore, la morte, la psicopatologia del quotidiano, l’etilismo, il male di vivere, l’ipocondria, il pessimismo (per restare in sintonia con il divino Giacomo): “Ho solo scelto un’altra nave/ un’altra rotta, un altro mare/ ma ciò che so far meglio/ resta sempre naufragare” Ma, come nel caso di questa ballata “Single bells”, quando il tono sembrerebbe virare decisamente sul drammatico ecco che l’ironia caustica del narratore (presente già nel titolo) prende di nuovo il sopravvento in una chiusa esilarante: “Quel giardin dell’erba voglio/ che ho perduto per scommessa/ e che ignoro con l’orgoglio/ di una cosa mai ammessa/ anche se del tuo ritorno/ e di una nuova mia promessa/ ne ho parlato l’altro giorno/ per tre ore con Alexa.”

Ma torniamo, per concludere, alla “rapidità”, caratteristica stilistica di molti di questi racconti. Nelle “Lezioni americane”, Calvino, alla voce “Rapidità” cita Leopardi che, nello Zibaldone” scrive: “(…) la rapidità e la concisione dello stile, piace perché presenta all’anima una folla d’idee simultanee (…) l’eccitamento di idee simultanee può derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro collocazione, e dal gioco della frase e dalla soppressione stessa di altre parole o frasi.” In questi racconti, già la scelta dei titoli, per lo più “musicali” individua campi semantici precisi in quanto spesso è il titolo metafora della storia, ma in più c’è un meccanismo narratologico micidiale e diabolico che funziona per amplificazioni; il paradossale è talmente paradossale che sconfina nel grottesco che, a sua volta, è talmente grottesco che sfocia nel comico, ma più spesso nell’umoristico; è un meccanismo questo che conoscevano bene Rabelais e Cervantes.

L’altro termine che ho individuato è lo straniamento che, secondo i formalisti è la procedura stilistica attraverso la quale l’artista ci dà un’inedita percezione della realtà. Per Sklovskij l’effetto di straniamento rende l’immagine nuova, imprevedibile, diversa dalla percezione comune o banalizzata. E’ quello che succede in questi racconti, dove la “crudeltà” nasce proprio dal ribaltamento di situazioni apparentemente normali e quasi “consolatorie” per trasformarsi spesso in un incubo o in un dramma, ma sempre comunque cinicamente esilarante.

L’autore

Fabrizio Bartelloni, avvocato penalista e magistrato onorario pisano appassionato di parole e delle varie forme con cui queste divengono racconto. Dopo il debutto con Frammenti.Fermi – immagine di piccole imperfezioni quotidiane (Ensemble, 2014), con cui vince il premio Giovane Holden, diviene autore e collaboratore di MdS Editore, per cui cura e scrive diversi libri, tra cui Testimoni d’accusa, Manuali di confessioni involontarie (2016), Cavalieri di specchi (2019) in coppia con Giovanni Vannozzi e Racconti di bolina. Storie di vita controvento (2020). Dal 2015 dirige, sempre con MdS la collana di narrativa Cattive strade. E’ ideatore e conduttore della rassegna Spiriti solitari – cantautori ascoltati, visti e raccontati, insieme a Marco Masoni, con cui ha anche pubblicato il saggio Lettere da sopra la pioggia – intrecci tra musica e letteratura nella canzone italiana (Pacini Ed. 2022)

GABRIELE SANTONI

Nomi senza cognomi

Inizierò a parlare di questo libro, partendo dal paratesto e, in questo caso, dalla copertina che mi rimanda immediatamente ad un altro libro “La versione di Barney” di Mordecai Richler in cui appare sulla copertina il biliardo. Il biliardo, se ci si ragiona un po’ su, è una metafora della vita dove i birilli sono gli ostacoli e la buca l’epilogo da evitare, appunto, come la morte. Ma questo vale solo per il gioco all’italiana con i cinque o nove birilli, perché nel libro di Mordecai il gioco è lo snooker, completamente diverso. Ho divagato un po’ , solo perché mi incuriosiva la corrispondenza tra le due copertine, ma ora parlerò del libro.

Nel solco di una tradizione che parte da Boccaccio e continua con il Franco Sacchetti delle Trecento novelle e con Giovanni Sercambi, Gabriele Santoni ha portato sulla scena, immortalandoli in dodici racconti (Nomi senza cognomi) personaggi popolari rendendoli protagonisti sia di teatrini strapaesani intrisi di comicità, calati nell’atmosfera fumosa delle sale da biliardo o nella messa in atto di filmetti porno, quando questo genere era ancora nella sua preistoria o nella beata cornificazione da parte della seducente Ludmilla, russa avvenente ed epigona della Monna Filippa boccaccesca, nei confronti dell’inetto coniuge, tale Paolo, soprannominato, guarda caso, brodo.

Ma, nello stesso momento, e con l’identico registro linguistico, ha raccontato storie di atrocità quotidiana, intrise di una violenza a metà tra il fumettistico e lo splatter, con evidenti richiami a film come “Sleepers” o “Bastardi senza gloria”. Storie che sembrano quasi fuoriuscite da quell’antologia “Gioventù cannibale” dove Ammaniti, Nove e Brizzi coniarono il minimalismo splatter scimmiottando un po’ Irving Welsh e Breat Easton Wellis.

Ma nelle storie violente di Santoni emerge quella “pedagogia di strada”, cui fa riferimento Renzoni nella postfazione, che i protagonisti, sublimandola nell’amicizia e nella koiné condivisa del paese da cui provengono, mettono in pratica con una sorta di romanticismo maledetto, da ultima spiaggia che, infatti, nell’ultimo racconto, porterà alcuni di loro ad immolarsi in modo plateale così come fecero Butch Cassidy e Sundance Kidd.

Fabrizio Bartelloni, nella sua prefazione scrive: “Perché quella che l’autore porta in scena è un’umanità da tre soldi, la fauna marginale e marginalizzata che trova il suo habitat lontano dai palcoscenici dell’esistenza, dai riflettori delle vite da cartellone.”

Vero, ma io aggiungo un’ ulteriore chiave di lettura che individuo nella categoria del “tipico”, individuata da un grande critico marxista ungherese Georgy Lukacs, che consiste nel cogliere il significato della realtà storica e contemporanea, le sue contraddizioni, le sue tendenze di sviluppo (anche nelle microstorie e nel microcosmo) ed esprimere tutto ciò attraverso situazioni e personaggi appunto “tipici”.

Ed ecco quindi che Mara, la protagonista del primo racconto, è personaggio tipico di una tragedia come la tossicodipendenza, Ludmilla, incarna il “tipico” dell’adultera, così come il Brezza è il “tipico” del seduttore di paese e Gino il “tipico” malato di ludopatia che ricorda l’Aleksey Ivanovic, il giocatore di Dostoevskij ... E quindi, individuata la chiave di lettura antropologica e fenomenica di questi “tipi”, il fatto che la loro cornice sia il paese è del tutto secondario, perché certe tipologie le troviamo nei romanzi di Pratolini, ambientati in via del Corno a Firenze, nei ragazzi di vita di Pasolini, ambientati nelle borgate e in quelli di Cassola che hanno come cornice la campagna toscana.

Un’altra riflessione sulla copertina: quei volti enigmatici senza connotati di una specifica identità, fuori dal tempo, personaggi anonimi che ricordano quelli raffigurati da Gideon Rubin, l’artista visivo israeliano, rendono bene il significato del titolo quasi un corollario; anche se i personaggi di queste storie (il Fava, il Saracino, Bazzicottino, il Muschio, Alendelon ...) un’identità ce l’hanno e somigliano, ma solo nella definizione, a quei comici spaventati guerrieri immortalati da Stefano Benni.

E, per finire, il grande protagonista che fa da sfondo a quasi tutte le vicende: il Bar, perché “Nei bar si sa tutto di tutti. Scorre la vita vera e si dividono gioie e passioni”

Santoni quando scrive rinuncia alla facciata, ai fronzoli della retorica decorativa e, come Carver, entra velocemente nel racconto e lo regala al lettore nella sua immediatezza, non trascurando nessun dettaglio e usando un linguaggio sorretto da immagini realistiche e visive che penetrano nel quotidiano e nei frammenti di vita e non era facile, parlando di personaggi popolari non cadere nel bozzettismo o nella retorica populista, magari parafrasando il Manzoni che mise in scena gli “umili”, negando però loro quella “vita interiore” riservata solo ai potenti e ai ricchi.

Santoni è decisamente uno scrittore minimalista, però, a differenza di Carver e di altri minimalisti, che lasciano spesso sospese e con finali aperti le loro storie, le sue, di storie, le chiude con effetti spesso imprevedibili che trovano una loro corrispondenza anche nel cinema, nel fumetto e nella fiaba (come nel racconto “Rosso e Nera”)

Chiuderei con un buffo ossimoro: Santoni, che, a mio avviso è “l’acchiappanuvole” nel racconto “Eva” con una scrittura rapida ci ha restituito la lentezza del vivere nei paesi, il tempo dilatato.

“ I racconti di Santoni presuppongono” , come nota Renzoni, nella sua postfazione, “un codice non detto, ma pervasivo: l’esistenza del tempo giusto per intessere rapporti umani, il lusso del conoscersi, del volersi bene o perfino per covare profonde disillusioni.”

E questo non è poco in questi tempi bui.

L’ autore

Gabriele Santoni è nato a Molina di Quosa. E’ sposato con Giovanna e ha una figlia, Adele. Ha fatto l’animatore per l’Arciragazzi e in seguito il tecnico di laboratorio scolastico. Si è occupato per tutta la vita di politica facendo per quasi vent’annni l’amministratore pubblico. Ha fatto il Sindaco di San Giuliano Terme (PI). Attualmente è responsabile commerciale di un ‘ azienda e presidente dell’ associazione culturale Molina mon amour. Ha condotto trasmissioni radiofoniche e pubblicato due libri, Molina mon amour (2012) e Guida romantica di Molina di Quosa (2018). Ha scritto il testo Repubblica Popolare Molinese, rappresentato in teatro. Ha pubblicato racconti in diverse antologie e su riviste on line.