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La Viareggio di Genovesi e la Lucca di Del Monte

di - martedì 19 dicembre 2023 ore 09:00

La Viareggio di Fabio Genovesi e la Lucca di Guido Del Monte fanno da sfondo ai due romanzi che racconterò nel nuovo numero del mio blog. Il primo “Il mare dove non si tocca” è un esilarante romanzo colorato e luminosissimo, divertente e poetico, capace di alternare con incredibile efficacia i registri e di farci passare in un attimo dal riso alla commozione. Il secondo mette in scena un uomo e una donna che si incontrano sul fondo dell’anima della loro città, Lucca. Lui è un regista amatoriale in crisi, lei chiede l’amicizia suonando al citofono di sconosciuti.

Iniziamo quindi da Fabio Genovesi.

Fabio Genovesi

"Il mare dove non si tocca"

Mimetizzandosi, anche a livello linguistico, nel percorso di un bambino dai sei ai dieci anni, che si chiama, guarda caso, Fabio come lui, (c’è molta autobiografia in questo romanzo) Genovesi ci racconta una storia esilarante che vede come protagonista, appunto, un ragazzino che vive in un non ben precisato paesino della Versilia, unico bimbo della famiglia Mancini ad avere due genitori (e fin qui niente di strano), ma ben dieci nonni, perché tanti sono i fratelli del suo vero nonno, uomini impetuosi ed eccentrici che se lo contendono per trascinarlo nelle loro mille imprese, tra caccia, pesca e altre attività assai poco fanciullesche, convinti però che tali attività siano di gran lunga superiori rispetto alle inutili nozioni scolastiche.

Così Fabio cresce senza frequentare i suoi coetanei, e il primo giorno di scuola sarà un concentrato di sorprese scioccanti, con l’incursione in aula dello zio Aldo (perché alla fine Fabio li chiama zii) che ha sequestrato la classe per spiegare come si costruisce un pollaio serio:

“In cima ci mettete un bel giro di filo spinato tutto intorno. Anzi, due giri. O anche tre, il filo spinato non basta mai. Così, se per sbaglio una gallina tenta di scappare o qualche bestiaccia prova a entrare, la mattina dopo la trovate impiccata lassù che dondola, e risolve anche il problema di cosa mangiare per cena. Capito ragazzi? Oh, avete capito o no!”

E, mentre Fabio si nasconde per non farsi riconoscere dallo zio e la maestra allibita tace, ecco che Aldo continua passando all’orto e a come si fa a seminare per bene, finché non arriva Mauro, il custode, che lo riconosce e lo abbraccia:

“Grande Aldo! Ma che ci fai qui!”

“Nulla Mauro, insegno un po’ di cose utili a questi bimbi.”

“Ah, bravo, era l’ora!”

“Ma come era l’ora!” fa la maestra. “Mauro è impazzito anche lei?”

“No “ risponde lo zio con gli occhi a palla, “pazzi siete voi! Ma cosa gli insegnate a questi ragazzi? Contadini rimbambiti che non sanno fare il loro lavoro, pomeriggi persi a risolvere problemi che non servono a nulla. Qua invece di andare avanti si va indietro, una volta si sapevano tante cose e ora non sanno più un cazzo. (…)”

Ecco, già da questo primo assaggio, si può capire di che stampo siano gli zii e di come il piccolo Fabio ne sia succube, anche se in fondo li ammira.

E infine, la scoperta più allarmante, che riguarda sempre i Mancini (cognome degli zii) e quindi la sua famiglia: tutti i maschi che arrivano a quarant’anni senza sposarsi impazziscono e infatti i suoi nonni – zii sono lì a testimoniarlo.

Per fortuna, accanto a Fabio, ci sono anche Giorgio, un padre taciturno, ma affettuoso, che con le mani sa aggiustare le cose rotte del mondo, la mamma, intenzionata a proteggerlo dalle delusioni della vita, una nonna che comanda tutti e una ragazzina molto saggia che va in giro vestita da coccinella e di cui il piccolo Fabio si innamorerà perdutamente.

Insomma una famiglia caotica e gigantesca.

Il mare dove non si tocca è una sensazione che chiunque abbia imparato a nuotare ha per lo più sperimentato. Per il piccolo Fabio si tratta di mettere in pratica il detto secondo il quale se vieni buttato in mare o affoghi o impari a nuotare. Ed ecco come il piccolo Fabio ci racconta questo episodio, dopo che il padre, senza preavviso, dal pattino, lo ha sollevato per le spalle e lo ha scaraventato in acqua:

“(…) E’ la sensazione più brutta del mondo, sgambettare e cercare coi piedi un appoggio che non c’è, andare a fondo e bere e forse morire. Ma ogni tanto, quando penso che è finita, in qualche modo torno a galla, e respiro, e vedo il babbo sul pattino che mi guarda e fuma. E dice qualcosa che però non capisco, perché vado di nuovo sotto, di nuovo bevo (…) sotto i piedi non ho nulla, eppure non vado a fondo. La testa rimane fuori dall’acqua, il corpo combatte, galleggio, e alla fine eccomi qua a guardare la vita che mi resta aggrappata addosso, tutta bagnata e agitata e più viva che mai.

Il babbo ha finito la sigaretta, ha allungato una mano, ha sorriso e mi ha tirato su a strappo.

“Ora sai nuotare, contento?”

E così Fabio quell’estate impara finalmente a nuotare grazie all’amato padre, un padre che, però rischierà di perdere in modo tragico, quando, durante l’allestimento dei paramenti natalizi in una chiesa, mentre sopra una scala sta sistemando l’impianto elettrico, cadrà rovinosamente per terra, rimanendo poi in coma per parecchi mesi:

“Avevo dieci anni ed ero il figlio del grande Giorgio che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto e invece adesso stava lì fermo su un letto, meno vivo dei fiori che gli mettevano sul comodino”

E, durante tutto il periodo in cui il padre sarà in coma, Fabio andrà spesso al suo capezzale, leggendogli storie finché Giorgio non inizierà a dare sensibili indizi di miglioramento.

Ma anche durante i momenti più difficili, la complicità di questa famiglia allargata, eccentrica e un po’ folle, una comunità autarchica che vive nel villaggio Mancini, aiuterà a crescere il piccolo Fabio, che sarà emarginato dal mondo dei suoi coetanei, ma sempre in grado, grazie alle varie esperienze di vita fornitegli dagli zii, di trovare nella propria esistenza qualcosa di indimenticabile, per cui valga la pena di lottare ogni giorno, anche se quegli strambi zii creeranno spesso forti imbarazzi per tutte le stravaganze che compiono.

Fabio Genovesi, nel raccontare questa storia, si affida alle memorie della sua infanzia: Fabio vive in una tribù familiare, in Versilia, a due passi dal mare, nei primi anni ’80, quando l’Italia vinceva i mondiali di calcio e dalle radio uscivano le canzoni di Julio Iglesias. Vive prevalentemente insieme ai nonni che gli insegnano a cacciare, a pescare, a bighellonare e gli raccontano storie strambe che lui assimila diventando a sua volta un bravo affabulatore al punto che, quando l’unico televisore del “villaggio Mancini” si rompe, lui si mette a raccontare storie. Inoltre adora il padre che è quasi il sosia di Little Tony e che gli ha insegnato a nuotare.

Accadono cose divertenti e pasticciate in questo libro, come la gara dei presepi tra i vari paesi e la costruzione del presepe nella chiesa da parte di tutta la comunità, episodio durante il quale Giorgio, il padre di Fabio, cadrà dalla scala dove era salito per sistemare l’impianto elettrico.

Un riassunto de “Il mare dove non si tocca” è impossibile perché dentro un’unica storia ce ne sono altre mille che si intrecciano, quasi con un effetto matrioska. E’ comunque un romanzo di formazione che parla della crescita di un ragazzino dai sei ai dieci anni e della sua graduale scoperta del mondo.

Cito dal web: “ La prosa di Genovesi è scoppiettante, colloquiale, complice con il lettore, comica e commovente, piena di scintille orali e di riflessioni infantili ingenue e al tempo stesso profondissime. Nei tocchi di meraviglia, tristezza, incanto, curiosità e candore del ragazzino Fabio ritroviamo i tocchi della nostra infanzia.”

Tra inciampi clamorosi, amori improvvisi e incontri straordinari, in un percorso di formazione rocambolesco, commovente e stralunato, Fabio capirà che le nostre stranezze sono il tesoro che ci rende unici e intanto scoprirà la propria vocazione di narratore perdutamente innamorato della vita.

L’autore

Fabio Genovesi è nato a Forte dei Marmi nel 1974. Con “Il mare dove non si tocca” ha vinto il premio Viareggio Rèpaci nel 2018. Altri suoi romanzi: Morte dei marmi, Cadrò sognando di volare, Tutti primi sul traguardo del mio cuore, Oro puro, Esche vive, Chi manda le onde, Versilia Rock City.

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Guido Del Monte

"L’abat – jour"

Interno lucchese

Interno lucchese, il sottotitolo di questo romanzo, funziona da detonatore per molte reminiscenze filmiche e letterarie. Una delle prime, che riguarda il cinema, forse la più evidente, è quella che rimanda a Gruppo di famiglia in un interno, 1974, di Luchino Visconti, dove l’esistenza di un professore statunitense, che vive tra libri e quadri nella sua casa in un antico palazzo di Roma, viene improvvisamente turbata dall’apparizione della marchesa Bianca Brumonti che riesce a farsi affittare dal professore l’appartamento al piano di sopra per darlo al suo giovane amante Konrad, dando vita così ad una serie di eventi che avranno un epilogo drammatico.

Una situazione analoga, ma meno drammatica, capita al Berti, bizzarro cineasta lucchese, protagonista di questo romanzo, che trascorre il suo tempo in modo claustrofobico nell’antica casa dei genitori, circondato da vecchi cimeli e costose attrezzature del cinema e dove coltiva la passione per il jazz, in particolare per Miles Davis e Chet Baker, che di Lucca conobbe il carcere.

Come il Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, Berti campa di rendita e quindi può permettersi di coltivare il suo hobby di girare cortometraggi che poi non vede nessuno. Ma, a differenza del Gengè pirandelliano che vuole liberarsi dalle “forme” che gli altri gli hanno imposto per ritrovare la propria identità, il Berti insegue e cattura le forme (le persone) per renderle protagoniste dei suoi film; le cattura per strada, al bar… dovunque.

Il Berti è titolare (nella finzione del romanzo) della Maison Nouvelle Vague casa di produzione cinematografica (Guido Del Monte è titolare nella realtà del progetto editoriale Maison Nouvelle Vague); il nome della casa di produzione è un omaggio al movimento cinematografico, nato in Francia alla fine degli anni ’50 su ispirazione rosselliniana, che cercava di testimoniare la realtà nell’immediatezza del divenire. I film erano semplici e autarchici, girati spesso in 16mm nelle strade, sui tetti, in appartamenti. I fondatori del movimento furono François Truffaut, Jean–Luc Godard, Éric Rohmer (alla cui memoria questo libro è dedicato insieme al nostro Silvano Agosti), Jacques Rivette, Claude Chabrol, Agnès Varda…

Ma torniamo al romanzo. Un bel giorno, quindi, la monotona esistenza del Berti viene turbata dall’incursione di Diana Marsiglia, una donna ancora giovane e sola che porterà tutta la sua vitalità stravagante e ferita in casa del regista. Un incontro che non può che diventare un film e Berti si calerà ancora una volta nel suo ruolo.

Chi è? Dice infine la voce dell’uomo, quasi allarmata e certo sorpresa come se un campanello non fosse fatto per essere suonato.

La bocca s’accosta all’ottone microtraforato. Labbra senza rossetto, un velo lucidate, si schiudono su denti bianchi: buon pomeriggio signore, mi chiamo Diana Marsiglia e la disturbo perché vorrei chiederle l’amicizia.

Cosa vuole chiedermi?

L’amicizia.

Mi scusi, non capisco.

L’amicizia signore, ha presente?

No. Ma è uno scherzo?

Niente affatto.

Sono queste le battute iniziali del libro che conferiscono da subito alla scena un quid di surreale; la porta che, alla fine si aprirà, funziona quasi come un sipario, dietro al quale appare il Berti, un uomo più che cinquantenne con in testa un vecchio berretto da capitano di mare, una barba incolta un sigaro toscano tra le labbra, occhi scavati da insonne, segni di occhiali appena tolti, magro, dentro un maglione scuro e brache di velluto beige risvoltate all’orlo tanto per non nascondere la vecchiezza delle scarpe nere che eguaglia quella del berretto.

Ed ecco come viene descritta lei:

Lui la osserva e vede un volto di madonna di Munch, illuminato come da un neon freddo o come da luce propria, quel tipo di grazia che sgorga didentro tant’è che la si nota, malgrado la lampada fioca delle scale. Gli occhi neri, le sopracciglia folte ancor più nere. Labbra socchiuse a recuperare un poco il fiato perso nella salita e pronte a dir qualcosa. Il naso piccolo e diritto respira adagiato in un campo di efelidi che danno alla donna il tocco della giovinezza imperitura che pure non è. Corpo nel pieno delle forze, sì, ma avrà forse trentacinque anni, che hanno trattenuto l’età più dolce in tanti particolari, nelle braccia esili e lunghe, nelle mani, nella pigmentazione dei capelli, nei fianchi, nell’ovale del viso, ma anche nel modo in cui questi tratti si compongono, ispirato, pare, al personaggio di un’adolescente dei fumetti giapponesi. La quarantadue non basta, la quarantaquattro forse è comoda, ma sono sfumature. Il petto e i fianchi ampi e mammiferi. Avrà piedi del trentasette, misura femminile comunque.

Ho riportato per intero le descrizioni dei protagonisti perché l’elemento visivo in questa storia che diventerà pagina dopo pagina un film è di fondamentale importanza.

C’è poi una seconda reminiscenza, questa volta teatrale, che ci ricorda, appunto il teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco.

Infatti i due personaggi con i loro dialoghi metteranno a nudo l’alienazione contemporanea, l’angoscia, la solitudine, la ricerca di una comunicazione espressa attraverso situazioni e intermezzi surreali, l’amore, il sesso, ma, allo stesso tempo, proprio come succede in Pirandello, la volontà di rappresentarla, di metterla in scena. Diana è un personaggio in cerca d’autore.

Un piccolo abat-jour è il testimone muto di tutto ciò che accade ed è impossibile non pensare a Ieri, oggi, domani dove, proprio sulle note della canzone Abat–jour cantata da Henry Wright, la squillo Mara (Sophia Loren) porta all’ennesima potenza il desiderio del seminarista Umberto che sarebbe quasi tentato di rinunciare alla vocazione, ma sarà dissuaso da Mara.

La storia di Diana e Berti conosce le discesa nel profondo e la risalita, in un secondo tempo del romanzo, che riempirà il cuore di speranza a coloro che amano il cinema e non manca neppure un finale che piacerebbe a Tinto Brass[UM1] .

Ho letto, a proposito di questo libro, un’interessante recensione di Erika Pucci, apparsa su Versiliatoday, nella rubrica “Il piacere di leggere” che riporto quasi per intero:

Protagonista del romanzo è Berti, un uomo che vive a Lucca di rendita grazie a una cospicua eredità. Ha al suo attivo numerosi film mai proiettati per il grande pubblico, i film sono “Le protagoniste” (opere precedenti di Del Monte, ndr) ed è in una fase indefinita, stanca, quasi apatica dell’esistenza. Un giorno suona il suo campanello una giovane donna che ai tempi dell’amicizia su Facebook, chiede le amicizie suonando direttamente il campanello.

Tra i due si instaura subito un rapporto schietto, intenso basato su dialoghi serrati, densi in cui lentamente l’uno scopre il proprio mondo interiore all’altro.

Lentamente scopriamo così chi è Diana, un personaggio femminile ben delineato e approfondito capace di conquistare il lettore, oltre che Berti. Sarà proprio Diana a portare una nuova fase piena di stimoli, iniziative, tentativi nella vita di Berti, fra il dolore della consapevolezza e la gioia di ricominciare a mettersi in gioco.

Il libro di Del Monte è un romanzo complesso che si posiziona ancora un volta tra narrativa e film, sebbene rispetto agli altri volumi pubblicati risulti essere più definito, organico, a tratti poetico.

E’ un romanzo luminoso sull’incontro reale con l’altro, sulla fiducia, sul riscatto, sulla solidarietà complice che può nascere tra due persone in attesa di una nuova chance a tutto tondo nella propria esistenza.

Diana è travolgente, spesso Berti sembra subire l’entusiasmo e la vitalità della ragazza perché introietta lentamente i punti di vista, le proposte della ragazza.

Grande protagonista è il cinema come suggestione ma anche come parte attiva della storia: nel buio della sala sta ai protagonisti scrivere la propria esistenza sul grande schermo.

Altra protagonista è Lucca, con i suoi vicoli, le sue stradine per cui sembra sempre un’ambientazione di interni.

Il lavoro, l’eredità in senso materiale e spirituale, il rapporto con i padri, le relazioni sono al centro della dinamica del romanzo grazie ai dialoghi ben costruiti e al tempo stesso empatici con cui Del Monte muove la trama. Sono il vero gioiello del libro: si propongono nel loro essere confronto e incontro, come un vero e proprio amplesso di parole.

Un regista che per scelta non si mette in gioco col grande pubblico, un approccio critico ma aperto verso i social media, l’autoproduzione: molti sono gli elementi autoreferenziali dell’autore.

Di questo libro esiste un book trailer a cura di Nicola Raffaetà che si può vedere su You tube, digitando: L’abat jour di Guido del Monte book trailer.

L’autore

Guido del Monte,Viareggio 1969. Studi filosofici, vari mestieri. Ha esordito con la narrativa nel 1994; una sua pièce dedicata a Bukowski è apparsa sulla rivista “Baubo”. L’esordio narrativo nel 2000 con “Costa west” (Baroni editore). Nel 2016 è ideatore del progetto editoriale “Maison Nouvelle Vague” (www.nouvellevague.com), un originale modello di produzione autarchica di “libri scritti e diretti dall’autore”. Escono: “Le protagoniste”, “Il Souvenir” (2017), dedicati alla memoria di Eric Rohmer, “Al livello del mare” (2018) e viene ripubblicato il suo romanzo d’esordio.