Borges aveva capito
di - martedì 28 gennaio 2020 ore 11:04
Oggi la città di Buenos Aires è deserta. Per il caldo , qui è ferragosto. La città si rinnova ogni giorno.
Borges aveva capito tutto questo e diceva: «Io sono sempre stato e sempre starò a Buenos Aires. È una città che fa presagire tutte le altre. Non si lascia mai del tutto, si continua a costruirla ricombinando le istantanee sbiadite che emergono dalla memoria».
Penso spesso a Jorge Luis Borges in questo mio errare per la città.
Chissà se oggi, dopo anni di dittatura militare e di liberismi selvaggi e improvvisati, dopo le sommosse della gente armata di pentole, Borges potrebbe ancora innalzare le sue costruzioni fantastiche, regalando altre dosi di magia a questa città bellissima e abbandonata all’incuria, assediata e conquistata da migliaia di nuovi poveri.
Chissà se potrebbe ancora inventare i suoi labirinti e situare nella circolarità del tempo i suoi specchi misteriosi.
E sono frequenti i complessini amatoriali che suonano per la strada o nelle gallerie che si aprono a delta sotto l’obelisco di plaza de la República, all’incrocio tra l’avenida Nueve de Julio e la calle Corrientes.
I turisti vanno a vedere il maestoso teatro Colón, appena restaurato, o il Museo Nazionale che ospita la più bella collezione di un grande pittore della Buenos Aires della grande emigrazione italiana della fine dell’800: Antonio Berni, il mio preferito.
Sono straordinari i suoi ritratti delle prostitute e dei mendicanti ma anche quelli emblematici dei disoccupati. Personaggi diseredati e attualissimi della periferia urbana.
C’è chi fa il giro dei caffè dell’avenida de Mayo ma anche di San Telmo, dove nessuno ritira la tazzina fino a quando il cliente non si è alzato dal tavolino, al contrario di quanto succede in Italia. E con il caffè arriva anche l’acqua al seltz con le bollicine fresche e un piccolo dolce a forma di mezzaluna.
In pochi altri luoghi posso scrivere e leggere con tanta concentrazione come qui. Non capita mai che qualcuno ti interrompa.
Tutto quello che c’è intorno sembra surreale e quando ci si siede in questi caffè è meno difficile capire perché gli argentini hanno avuto Borges e, aggiungo io, anche Osvaldo Soriano.
Storie fantastiche e inverosimili che raccontano di una realtà vitale.
Nel suo primo viaggio a Buenos Aires, l’ispettore Pepe Carvalho, il personaggio di Vázquez Montalbán, parla di una delle strade più rappresentative della città, avenida Corrientes, come di un ambiente caotico che invecchia, come se le attività commerciali e gli edifici congiurassero per il massimo disaccordo estetico.
In realtà è una città che mi fa venire in mente diverse altre città viste e conosciute. Attraversarla è come sfogliare un album di ricordi. Penso ai palazzi di Parigi e Londra, ai grattacieli di New York, alle terrazze con i balconi di ferro battuto di Madrid, forse non belli come gli originali, ma dal fascino discreto e seducente. Oppure penso a repliche di interi quartieri, italiani o spagnoli, che qualcuno ha fatto lo scherzo di trapiantare quaggiù popolandoli di attori e comparse che re- citano alla perfezione la nostalgia.
Alle volte mi sembra di rivivere scene della mia remota giovinezza.
Cammini in una grande strada con enormi platani e facciate pompose, ti perdi poi in tutte le stradine laterali, scoprendo piazzette segrete e caffetterie con baristi dall’aria annoiata, le pareti ingiallite dal tempo e dal fumo, con sale buie e banconi di granito bianco, quasi tutti aperti negli anni della grande immigrazione.
E nei mille caffè rivivono anche i luoghi letterari, quelli degli scrittori che hanno creato il suo mito, dei poeti del tango, dei filosofi dell’esistenzialismo.
Sì, penso davvero che l’argentino abbia preso quasi tutto della vecchia Europa. Spesso ha copiato anche male, però non si è fatto mancare niente.
Qui si confondono tutti gli stili immaginabili.
Però amo questa città, la amo nonostante tutto. La amo per quello che è stata e per quello che riesce a essere anche oggi.
La amo perché è fatta di gente in carne e ossa, perché è uno spezzatino di anime e culture, un miscuglio di caratteri diversi, così grande da far dubitare che esista davvero.
Ma soprattutto mi ci trovo bene.
Sarà anche che sono ancora alla ricerca del luogo cui appartengo, e non so se sarà un posto antico cui fare ritorno o un nuovo posto verso cui emigrare.
Forse cercando le tracce di anni lontani e recenti compren- derò cosa è diventato il presente.
Per questo tento di sentirla ancora, questa città.
Molte cose di Buenos Aires mi aiuteranno, è chiaro.
Per esempio calle Florida, angolo con Corrientes, dove le librerie sono sempre aperte, con piani di scaffali e rare edizioni altrove introvabili, le librerie mi accolgono anche a notte fonda, quando il resto della città si prepara a dormire.
E l’antico Café Tortoni, con i suoi tavolini di scuro legno intarsiato, le cioccolate bollenti nelle porcellane bianche, gli argenti spessi e opachi per il tè, anch’essi appannati dal tempo. Senza dimenticare le poesie autografe di Borges appese ai muri, fogli che ti guardano e scatenano la commozione, oppure gli spartiti dei tanghi di Gardel o gli schizzi dei pittori amati dagli argentini.
E il maestoso Colón, teatro che trattiene magie, intriso di voci e di canto, il preferito da Caruso.
Il cimitero della Recoleta con i vialetti alberati e le architet- ture liberty e la tomba di Evita, ma anche il cimitero immenso della Chacarita, sconfinata ultima stazione di arrivo di generazioni antiche di migranti, con la statua di Gardel sorridente cui non manca mai una sigaretta accesa tra le dita.
E quindi la gente che corre nel maestoso parco del quartiere Palermo o incede nelle stradine che portano alla parte vecchia del barrio.
I banchi degli ambulanti a San Telmo, con gli ubriachi della nuova immigrazione del nord che dormono, gonfi di birra, sulle banchine di Porto Madero. Tra due giorni torno a casa, ho terminato il mio libro “Il fabbricante di giocattoli”.