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domenica 10 novembre 2024

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​“Ahi Pisa, vituperio de le genti”

di - martedì 26 marzo 2024 ore 08:00

Le parole che Dante rivolge a Pisa nel canto XXXIII dell' Inferno (v.79) hanno fatto sì che la nostra città sia rimasta nella storia come luogo ostile al Sommo Poeta.

Quale fu la colpa di Pisa?Quella di aver imprigionato e condannato a morire di fame, per volere dell’Arcivescovo Ruggieri, non solo il Conte Ugolino della Gherardesca , ma anche i suoi due figli, Gaddo e Uguccione e i due nipoti Anselmuccio e Nino.

Ma, al di là di questo episodio, c’è da dire che Dante a Pisa ci venne davvero al seguito dell’imperatore Arrigo VII durante la sua discesa in Italia e fu senz’altro presente alle esequie dell’ Alto Arrigo, quando nel 1313 fu sepolto in gran pompa in cattedrale e, secondo studi recenti, proprio a Pisa abbia iniziato a scrivere il “De Monarchia”, il suo trattato politico a favore dell’impero.

Insomma, anche se Dante accusa e maledice Pisa , Pisa non può che amare Dante e infatti a lui è intitolata la grande piazza nel quartiere medievale di Santa Maria , sulla sponda destra del fiume Arno nella zona del Lungarno Pacinotti, sulla quale si affacciano il Palazzo della Sapienza, sede della facoltà di Giurisprudenza e della Biblioteca Universitaria, e la Cassa di Risparmio di Pisa.

Ho ritenuto necessario questo preambolo, perché in questo numero del mio blog, si parlerà di Pisa, attraverso i libri di tre pisani che la conoscono bene e che non hanno bisogno di presentazioni . Il primo, Athos Bigongiali con il suo “Pisa una volta – Ritratti del dopoguerra” (Pacini editore) , la seconda, Paola Pisani con il libro “Pisa: la spesa in piazza” – luoghi della memoria – (Felici Editore), del terzo Afo Sartori, scomparso il 10 giugno del 2022 che nella collana “Incipit” (ETS) diretta da me e Daniele Luti, aveva pubblicato il suo ultimo libro “Autre”, racconterò invece “Gente di Pisa” (Felici Editore).

Insomma, un imperdibile trittico! Un viaggio nella Pisa di un tempo, guidati da tre fuoriclasse della scrittura, qui in veste di originali ciceroni. Come sempre, le presentazioni seguiranno rigorosamente l’ordine alfabetico.

ATHOS BIGONGIALI

Pisa una volta -Ritratti del dopoguerra

Come di consueto, mi piace iniziare il racconto di un libro, dando la parola al suo autore; quindi, sentiamo cosa dice Athos:

Questo libro va letto come un modesto tentativo di fermare il tempo, scrivendo di quel che rimane di noi, incorporei ricordi di ciò che è stato, a cui vanitosamente diamo il nome di memoria. Riedito dopo venti anni, grazie all’editore Pacini in occasione del suo 150° anniversario, il libro ha conservato lo stesso titolo, ma è molto cambiato. Forse invecchiando è perfino migliorato, come certi vini ben custoditi. Le parole “ritratti dal dopoguerra”, suggerita da Francesca Petrucci, indicano con più precisione il periodo in cui sono ambientate tutte le storie qui raccolte (eccetto l’ultima ma anch’essa affidata ai miei ricordi), e vanno intese come didascalia alle fotografie che lo illustrano. Alcune sono tratte dal mio album di famiglia e già presenti nella precedente edizione, le altre sono state scelte tra le tante che l’editore ha voluto mettermi a disposizione, in parte utilizzate per alcuni libri magistralmente curati da Giuseppe Meucci e Stefano Renzoni e provenienti dall’archivio Frassi, dal quale abbiamo attinto diverse foto ad oggi mai riprodotte, grazie alla disponibilità della Fondazione Palazzo Blu.

Il risultato è un libro pensato per viaggiare indietro nel tempo, alla ricerca di volti, di eventi e di luoghi della Pisa del dopoguerra e della ricostruzione, anni memorabili ma talvolta colpevolmente dimenticati o costretti a rifugiarsi nelle pieghe del nostro inconscio. Nel riproporlo ai lettori in questa nuova veste mi avvalgo, a mo’ di commiato, della chiusa di un celebre romanzo di F.S. Fitzgerald là dove dice: “Così continuiamo a remare, barche controcorrente, respinti senza posa nel passato”

E’ la frase finale de “Il grande Gatsby” che può così essere interpretata: è meglio abbandonare i ricordi, lasciarli vivere nel passato, o permettere che essi intralcino e rivivano nel futuro?

Anche se Gatsby non ha dubbi su questo, affermando che certamente si può, anzi impegnandosi in una solenne promessa: “Io metterò tutte le cose come erano prima”… ma lui pensava soprattutto a Daisy e al “sogno americano” …

L’intento di Athos, non essendo un masochista, non è certo quello di rimettere le cose come erano prima (la guerra, la fame, la miseria, i bombardamenti …), ma quello dichiarato di far rivivere i ricordi, portarli allo scoperto, farli conoscere alle generazioni che quel periodo non l’hanno conosciuto e vissuto.

E’ un libro, questo, che, grazie alle molte immagini (ben 110) da cui è corredato, crea in chi legge un piacevole effetto sinestetico, perché oltre al vedere, si percepiscono, grazie ad una scrittura emotivamente coinvolgente, suoni, odori e sapori che quasi evaporano dai frammenti che vengono rappresentati:

Era a tavola a casa degli Orselli, in via Livornese, con la Tripola che stava pulendo il muggine quando fischiò giù la prima bomba, prima avevano mangiato un po’ di pesce fritto, dorato al punto giusto e croccante. Avevano anche bevuto qualche bicchiere di vino, bianco.

Un pranzo tragicamente interrotto, alle 13.04, dal bombardamento del 31 agosto del 1943. Le dodici fortezze volanti denominate Liberator (ironia di un nome) rasero al suolo il quartiere di Porta a Mare. La prima stima delle vittime fu di 1378. La casa di Athos in via Conte Fazio fu rasa al suolo.

E le tragedie continuano con la piena dell’ Arno, quella del 1949, dove emerge, pur nella tragica circostanza un ricordo divertente legato alla casa dove Athos era andato a vivere con i suoi in via Magenta, dietro il lungarno Simonelli:

E ricordo i racconti dei miei su come ce ne andammo. In barca sulle acque straripate dell’Arno. (…) mi è difficile credere che traversammo l’Arno in barca, con mio padre che remava mulinando le braccia. Esagerazioni ma fatto sta che vidi, o ricordo di aver visto, i miei familiari carichi di fagotti mentre la barca si dirigeva verso la sponda opposta, uno dei quali era sicuramente mia sorella, ancora più piccola di me. Comunque quando ci trasferimmo nella nuova, provvisoria casa di là dal fiume tre stanze al pianterreno di un edificio in via S. Antonio, accosto alle macerie che davano sul lungarno Gambacorti, cercai invano tra quei fagotti i miei giocattoli. Non ricordo se piansi (…) C’era del buono a vivere in quella casa. Io potevo per esempio, fare pipi direttamente dalla soglia senza bisogno di andare al gabinetto. Mi reggevano per la collottola mentre la facevo. E se le donne non guardavano potevo anche avventurarmi di là dalla soglia e sgambettare nelle pozzanghere meno profonde.

E’ l’ Athos bambino che racconta questi frammenti e che ci fa percepire l’ingenuità e lo stupore attraverso una sofisticata mimesi linguistica, come nell’episodio della veglia alla nonna morta da poco:

Pareva appena uscita dalla parrucchiera, dopo la permanente. I capelli bianchi erano accorciati a onde, con riflessi viola. Era molto ammirata. Aveva un’espressione serena con un accenno lievissimo, di sorriso: si capiva che era contenta di essere ammirata, distesa comodamente sul suo grande letto bianco, con i pizzi che le incorniciavano il viso. Era anche molto sorvegliata. Era morta la sera prima, ma ancora insistevano a sorvegliarla, chi con le mani giunte, chi con le mani in grembo, tutte pronte a trattenerla nel caso si fosse svegliata, per andarsene via. Che figura avremmo fatto, se se ne fosse andata.

Sono innumerevoli i frammenti e non è possibile riassumerli tutti; poi ci sono i luoghi, i quartieri, le strade proibite, come via Maddalena, via Mazzini:

Ed ecco che arrivarono i soldati.

In fondo a un vicolo, sulla destra, poco prima della porta pitturata di verde dell’oratorio e della volta bassa, tutta annerita, che sboccava in via Mazzini. I soldati erano giovani e fumavano. Se ne stavano lì in piedi davanti a un bel villino dipinto di rosa, con i davanzali colmi di vasi di fiori. Ciclamini e violette e anche lillà. Quanti fiori e che buon profumo, le nostre mamme ci avrebbero messo un anno a crescere fiori così profumati. Era la casa di tolleranza, il casino.

E, dopo averci raccontato perché la Cittadella un tempo si chiamava il Settimo, fatto conoscere lo zio d’America, portato all’opera al Teatro Verdi a sentire il Rigoletto, ecco che Athos apre un siparietto particolare intitolato “Mi ricordo”. Ed è proprio un amarcord in piena regola. Sono ben 60 i ricordi e la saudade non c’entra, perché non si poteva certo avere nostalgia di quei periodi, ma sono comunque indicatori di certe atmosfere:

Mi ricordo che non si buttava via nulla; mi ricordo che il sabato mi facevano il bagno, nudo nella tinozza in cucina; mi ricordo le braci dentro lo scaldino; mi ricordo le sigarette Serraglio, Macedonia e Giubek. Mi ricordo le sigarette Turmac, col bocchino dorato. Mi ricordo il trinciato nero; mi ricordo il Grande Emporio Bazar 48, in Borgo Stretto.

E il “Mi ricordo” è diventato uno spettacolo teatrale con la regia di Massimo Corevi, e come interpreti Athos Bigongiali, Athos Davini, Benedetta Giuntini ,musica dei Madaus, andato in scena il 2 marzo al Teatro Nuovo di Pisa.

Vorrei concludere avvertendo i lettori che, se vogliono scoprire quando, come e perché Holliwood, grazie a Richard Burton e ad Elizabeth Taylor, salvò la Torre di Pisa … ebbene non dovranno far altro che leggere l’ultimo episodio di questo libro.

E infine, per un’altra conclusione, cedo la parola a Francesca Petrucci che così scrive nella quarta di copertina:

Tornare sui propri passi: Un'operazione non facile per un autore, che con umiltà e orecchio attento si è messo in ascolto, per accogliere immagini sussurrate di una Pisa dimenticata, trasformata in un racconto vivido, che scorre davanti agli occhi della mente restituendoci un coro di ritratti che sanno passare dalla dimensione privata della sfera individuale e familiare a quella di una comunità cittadina.

Per motivi editoriali di spazio, questo mio racconto sul libro di Athos, resta un po’ orfano di molte altre riflessioni e purtroppo impossibilitato a rendere visive le molte immagini che sono un compendio fondamentale delle narrazioni, ma spero in ogni caso di avervi fatto assaporare, anche se a grandi linee, le atmosfere di quegli anni.

L’autore

Athos Bigongiali ha fatto il suo esordio narrativo con Una città proletaria (Sellerio1989), ha pubblicato, sempre per Sellerio, Avvertimenti contro il mal di terra (1990); Veglia irlandese (1992) e Lettera al Dr. Hyde di R.L. Stevenson (1994). Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Le ceneri del Che (Giunti 1996); Ballata per un’estate calda (Giunti 1998), finalista del Premio Viareggio e del Premio Zerilli-Marimò New York University. E ancora Pisa una volta. Una storia illustrata (Pacini 2000) e Il Clown (Giunti 2006) e L’ultima fuga di Steve Mc Queen (Felici 2009), vincitore del premio Perelà Chiamatemi Marconi (con Oreste Varrini) . Autore di dieci radiodrammi per la RAI, Athos Bigongiali collabora alle pagine culturali di vari giornali e riviste ed è membro di giuria di vari Premi Letterari, tra cui «Ultima Frontiera», di cui è presidente. 

PAOLA PISANI PAGANELLI

Pisa: la spesa in tasca

Inizierò a presentare il libro di Paola Pisani, citando l’ottima quarta di copertina, un estratto dell’introduzione , scritta da Alessandro Scarpellini, poeta e scrittore:

Piazza delle Vettovaglie, Piazza Chiara Gambacorti (la Pera per noi pisani) luoghi, micromondi, universi che un tempo erano animati da un'altra musica di vita. Qui abitava, amava, viveva la gente di Pisa. Diversi erano gli odori, i sapori, i sorrisi, i rapporti fra persone, i discorsi, i litigi, gli scherzi, i dubbi, i sogni. Non è la grande splendente Piazza dei Miracoli, candida di Marmi a raccontare la storia di Pisa, ma le bancarelle del mercato, i venditori ambulanti di pizze - olive - baccalà - bomboloni - libri usati , le antiche botteghe alimentari le lavandaie, i piazzaioli e i pizzicagnoli, le macellerie di carne equina o di vacca, i ciabattini, i pescivendoli, i norcini , una moltitudine di personaggi ormai scomparsi e di realtà che non sono più...... questo libro ricco d'amore per Pisa Non è solo un resoconto di botteghe, merci lingua storia passate......... è la vita che allora c'era in queste piazze e ci fa conoscere un'altra umanità.”

Ed ecco un breve estratto dell’introduzione di Paola Pisani:

Personaggi indimenticabili per simpatia, umanità, ironia, laboriosità hanno composto ai miei occhi trame di esistenze passate, di vita quotidiana. La microstoria di Pisa. La nostra. Ripercorrerla attraverso storie di venditori ambulanti e a posto fisso, significa non solo ricostruire la fisionomia umana e commerciale di Piazza delle Vettovaglie e Chiara Gambacorti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale all'avvento della grande distribuzione anni 70 ma anche il costume cittadino anche aspetti di vita sociale e familiare e culturale. "Quale una donna presso il davanzale ... che non è desta ed il suo sogno muore.” Questi versi di D'Annunzio dedicati a Pisa mi affiorano sulle labbra ogni volta che percorro Piazza Chiara Gambacorti e Piazza delle Vettovaglie, perché le vedo come sospese in un lungo crepuscolo tra il ricordo di un passato ricco di vitalità e il sogno di una riqualificazione futura.”

(…) Per ripercorrere la mappa della geografia commerciale e umana delle nostre due piazze cittadine nel decennio tra il 1950 e il 1970 (centrale per il trapasso dalla civiltà rurale a quella industriale), mi sono avvalsa di interviste ed incontri con gli operatori ancora attivi dei due mercati.

La scrittura di Paola Pisani si avvale da sempre di una ricerca accurata delle fonti storiche, ma allo stesso tempo unisce all’acribia della ricercatrice minuziosa anche dei minimi dettagli, la leggerezza di un lessico colorato e mosso che rende godibili e unici i suoi ritratti.

Si parte da una considerazione: Piazza Chiara Gambacorti e Piazza delle Vettovaglie sono i luoghi centrali nella memoria storica dei pisani che, per generazioni, li hanno frequentati come originari e vivaci centri commerciali, dove quasi tutte le categorie merceologiche erano presenti.

Eppure, passandoci oggi, e lo faccio spesso, da quelle piazze, di quel mondo non c’è più traccia; solo alcuni patetici e nostalgici residui di quello che fu un universo a sé. Adesso Piazza Sant’Omobono e Piazza delle Vettovaglie sono un coacervo di pub, osterie, negozietti etnici, zone di spaccio ( di droga) , ricettacolo di tossici. Sono sopravvissuti in piazza Sant’Omobono solo due scheletrici banchetti ed è finito quel tempo in cui i dettaglianti si conoscevano tutti per nome e soprannome:

I nomignoli diffusi derivavano da caratteri fisionomici e comportamentali, alcuni dei quali di immediata evidenza o di notoria motivazione fra gli stessi clienti, come “Boccalino”, “Baronessa”, “Quartina”, “Ovo sodo”, “Pancino”, “Cucciolo” (…) Le due isole commerciali erano in sé un piccolo mondo, in cui connotazione civica e vocazione mercantile si sono intrecciate, arricchendosi vicendevolmente, così come è avvenuto per l’osmosi sinergica tra commercio ambulante e a posto fisso. La morte di una componente ha comportato anche la morte delle altre. Lo dimostrano le vicende di entrambe le piazze, accomunate da identico declino, sebbene più repentino sia stato quello di Piazza Chiara.

I personaggi, appunto … Sarebbe un’impresa ardua raccontare tutti quelli citati da Paola, ma alcuni sono entrati talmente nella memoria storica e nell’immaginario collettivo di intere generazioni che è quasi impossibile non nominarli e tra l’altro io, che sono un giovanottino del ’51, li ho conosciuti; due su tutti, la “Baronessa” e “Berta”.

Nessun altro personaggio ha incarnato come lei (la baronessa, ndr) lo spirito della piazza (…) Dritta dietro il suo banco di frutta, aveva il piglio di un capitano sul ponte di comando della nave. Indossava una sua divisa: grembiule scuro e scialle di lana nell’inverno. Su di essi spiccavano, quasi fossero gradi e alamari d’ordinanza, i pesanti monili d’oro di cui amava adornarsi. (…) La sua voce forte sovrastava i richiami dei venditori vicini. Giungeva lontano l’eco delle sue strepitose offerte, condite di facezie in vernacolo. L’intelligenza che brillava nei penetranti occhi neri, emergeva anche nella prontezza con cui valutava al primo sguardo la disponibilità del cliente allo scherzo e alla familiarità.

E poi Berta, un monumento vivente della piazza che nel 1945 ebbe un’intuizione vincente acquistando per la sua bancarella prodotti quasi sconosciuti, legati alla presenza delle truppe americane che determinarono orientamenti nel gusto e nelle consuetudini di vita. Le prime T-shirt bianche, i blue – jeans, insomma la sua bancarella diveniva un concentrato del mercatino americano labronico.

L’acquisto di determinati articoli segnò per molti ragazzi, provenienti anche da fuori città, una tappa conquistata nel processo iniziatico verso l’età adulta. Lo furono, oltre agli indumenti, le prime sigarette estere, acquistate e fumate di nascosto dai genitori. Lo furono gli accendini tascabili stranieri che soppiantarono i cerini italiani. Lo furono le radioline giapponesi a transistor di cui Berta fu la prima importatrice a Pisa.

L’altra piazza, protagonista di queste storie è Piazza Chiara Gambacorti. Ed ecco come ce la presenta Paola:

A chi si è lasciato alla spalle le luci di Corso Italia, appaiono più scure le ombre della sera in piazza Chiara Gambacorti. Il silenzio, che, a poco a poco, si incunea sotto la pesante volta di vicolo S. Bernardo, si dilata improvviso nel buio del quadrilatero centrale, contornato da fondali di alti edifici. (…) Al centro del quadrilatero, disposte intorno alla piazza, una ventina di bancarelle offriva ogni mattina una pittoresca visione, animata di voci, colori, odori. Gli acquirenti vi convenivano dalle vie S. Bernardo, S. Lorenzino, La Pera, La Foglia, Tre Re, vicolo del Moro … nomi antichi di antiche strade.

Ma su quella piazza, che noi pisani abbiamo sempre chiamato piazza La Pera, il 27 dicembre 1981, si abbatté una tragedia, causata da una perdita di gas in un appartamento. Lo scoppio causò il crollo di un palazzo a tre piani e nove persone, tra residenti e avventori del ristorante sardo “Il Nuraghe”, vi persero la vita. Per Pisa fu la più grave sciagura del dopoguerra e per quell’area commerciale fu la fine.

Oggi, la piazza si è rifatta completamente il look e, grazie all’insediamento di nuovi pub e negozi, è diventata uno dei centri più frequentati ed esclusivi della movida pisana.

Ma, tornando indietro nel tempo, anche piazza “La Pera” ebbe, al pari dell’altra, luoghi e personaggi memorabili.

Tra i luoghi, in primis, la Polveriera.

Non sbagliò chi caratterizzò con tale appellativo l’angusta e fumosa fiaschetteria a due piani all’inizio di via Della Foglia. Era nata come “Circolo Nova Vita” nell’immediato dopoguerra per volontà di un gruppo di amici, uniti dall’ideale anarchico. Era rustico ritrovo, dove consumare spuntini a base di pane e salumi, giocare a briscola e a terziglio, fumare un sigaro, bere un quartino o una mezzetta di vino.

E ancora, tra i luoghi, il forno di Nerino Bertolla, la pescheria Vettori, il calzolaio Breghi e, tra i personaggi La Quartina e suo figlio Cucciolo.

Chi la conosceva con il nome di Anna? Per tutti era la “Quartina”, una storica bancarellaia, che fu, finché visse, il personaggio di maggior spicco di piazza Gambacorti, come la “Baronessa” lo era stato di quella delle Vettovaglie. (…) Derivò il nomignolo dal nome del marito, che i genitori battezzarono “Quarto”, perché quarto figlio. Il diminutivo fu dovuto alla statura. (…) Era difficile sottrarsi ai richiami della Quartina: la sua voce stentorea, che risuonava da un capo all’altro, esaltava la bontà e la convenienza dei prodotti, si alzava in battute argute, e si abbassava in commenti mordaci, se un cliente l’aveva inutilmente spazientita.

Il figlio della Quartina, Umberto Castiglioni, nel 1968 rilevò la piccola osteria del vecchio anarchico Bracaloni che serviva le varie specialità toscane ,zuppa di fagioli, baccalà e ceci, trippa e la famigerata cioncia (ritagli delle ganasce del naso e della coda di bestie da poco macellate). Umberto confessò di aver intitolato il suo ristorante a uno dei sette nani, “Cucciolo”, ma anche per sottolineare la sua non eccelsa statura. Insieme alla moglie Graziella Gerbi, nota come “La Cucciola” proponevano le tipicità culinarie della piazza, anche se Cucciolo ricordava con nostalgia i tempi in cui anguille e ranocchi popolavano i corsi d’acqua e le cee abbondavano in Arno.

Al di là dei ritratti disegnati da Paola con una scrittura che si ammanta spesso di lirismo e conferisce suoni e colori alle immagini in movimento, c’è in questo libro la riflessione amara su quanto fosse dura la vita degli ambulanti, che dovevano svegliarsi all’alba per il mercato giornaliero, con in testa berretti di lana e scialli e guanti per sopportare il freddo, bevendo ogni tanto un ponce al mandarino per rinvigorirsi. Bella poi la descrizione delle veglie nelle feste di Natale e del Capodanno, quando gli ambulanti non rincasavano per la notte né l’antivigilia di Natale, né la vigila del 31 dicembre.

Seduti presso il loro banco, gli ambulanti trascorrevano la notte all’addiaccio, riparandosi con coperte e scialli. Alla veglia partecipavano fino a tarda ora alcuni negozianti della piazza, con qualche bancarellaio delle Vettovaglie, tra cui si distingueva la “Baronessa”, che univa la sua sonora voce agli stornelli intonati dall’amica Quartina. I bambini in festa, lottavano per non cedere al sonno. Intorno ai bracieri e alle fiamme dei falò, si levavano chiacchiere, confidenze, risate e cantate. L’eco si smorzava nel silenzio delle vie. Lo raccoglieva il fiume, che lo portava con sé a spegnersi verso il mare.

E questa è poesia!

Vorrei concludere questo viaggio dentro il libro di Paola che è tra l’altro corredato da ben 53 fotografie tratte dall’archivio storico Frassi, con questo brano della postfazione scritto da Lia Marianelli:

Così un dedalo di piazze, vicoli, slarghi improvvisi, negozi, bancarelle, ma soprattutto decine di persone, fantasiosi esercenti, commercianti apprezzati, artigiani di tradizione, ambulanti minuti e occasionali, poveri cristi di tutti i giorni ricompongono felicemente il mosaico di solerte attività che occupava un giorno il centro di Pisa: e mi sembra bello, bello e anche giusto che una volta tanto i riflettori abbiano illuminato non i personaggi importanti della politica e della cultura, ma questa specie particolare di vip, far rivivere i quali equivale a far rivivere tanta parte ormai dimenticata di tanti di noi che per quelle vie hanno camminato e in quelle piazze hanno sostato in anni ahimè ormai lontani: una liberazione improvvisa anche della nostra memoria, meno ingombrante in fondo del presente che la soffoca.

Sono infiniti i luoghi e i personaggi che popolano queste pagine ed è quindi impossibile raccontarli tutti. Ma entrare dentro queste pagine è stato come viaggiare a ritroso nel tempo, in un album di memorie scritte e visive emozionanti e uniche. Perché, come scrive Paola nell’epilogo: Se è vero che dai vecchi muri si schiudono i ricordi, non sarà stata un’ illusione.

L’autrice

Paola Pisani ha insegnato italiano e latino per trent’anni al Liceo “U. Dini” di Pisa. Tra i suoi numerosi libri: Storie dell’Arno, A Marina sul Trammino, Ritratto di Elena, Matilde Calandrini, Una pallottola per Garibaldi, Pisa, la spesa in piazza, Graffiti nazionali degli anni ’50.

AFO SARTORI

Gente di Pisa

“Se Gadda fosse stato pisano sarebbe stato Afo. Se non fosse stato pisano … Ecco questo è un concetto impensabile. Afo Sartori non avrebbe mai potuto non essere pisano. Salvo cedere all’ idea che sarebbe stato un altro. Una contraddizione in termini. A meno che non vi riesca di pensare a un Fidel Castro glabro o un Muhammad Ali biondo”

Ecco cosa scriveva Davide Guadagni nella prefazione ad “Autre” il romanzo che Afo Sartori pubblicò nel 2015 nella collana “Incipit” (ETS) , diretta da me e Daniele Luti.

Guadagni, molto acutamente, mette a fuoco due elementi distintivi di Afo: la pisanità e, citando Gadda, il lessico particolarissimo di Sartori. Infatti, più avanti, sempre nella prefazione, scrive: “ Chi non fosse avvezzo alla prosa sartoriana, sappia che si troverà di fronte ad un testo strabordante che potrebbe lasciarlo senza fiato, colmo di neologismi (solo per chi non lo ha letto in precedenza lo sono), stranguglioni sintattici, intermittenze, anacronismi indecenti, frenate e ripartenze infinite. Afo, quando scrive, è un fiume in piena e il lettore si deve solo predisporre ad accoglierlo.”

Ed io aggiungerei accanto alla pirotecnia lessicale di Sartori, divertimenti vernacolari portati al paradosso, coltissime citazioni letterarie, calembour … insomma un arsenale ricco e variegato che si può sintetizzare in una sola definizione: plurilinguismo.

Ed anche in “Gente di Pisa”, il libro che vado a raccontare si trovano tutti questi elementi, sorretti da un’ironia e da un sarcasmo che sono le cifre stilistiche della sua narrazione. E Afo, citando Joyce e i suoi “Dubliners”, scrive:

Anche perché se esiste gente di Dublino esisterà gioco forza gente di Pisa. Se esiste una dublinità esiste anche una pisanità. Una città ha un suo stile, una inclinazione, una pendenza – nessun riferimento alla nostra Torre si capisce, e nemmeno che a questi lumi di luna essa rappresenti la migliore metafora dell’esistenza umana – e indole e predilezioni che s’incocciano solo lì e non altrove.

E, più avanti :

Ecco allora un’altra, e ultima affinità periferica avvinghiata però a una differenza fra me, Afo pisano e pisantropo a tempo pressoché pieno, e Lui, James dublinese (…) (i nostri , ndr) sono due libri datati. Gente di Dublino è stato scritto tra il 1904 e il 1913 (…) Gente di Pisa è stato scritto ora (2004), ma situa i suoi momenti narrativi in periodi riferiti a tempi d’antan, grosso modo l’ultimo mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale e limitrofi.

Ma qual è la gente di cui parla Afo? Lascio la parola ad Alessandro Scarpellini che ce lo ha raccontato molto bene nella sua postfazione. Tra l’altro, Alessandro ha pubblicato nel 2015 “Altra gente di Pisa” (MdS); una raccolta di sue poesie che illustrano i ritratti di personaggi pisani dipinti da Enrico Fornaini.

Ed ecco cosa scrive, a proposito di questo libro:

(…) Afo Sartori in questo libro parla di Pisa, del suo spirito e della sua anima antica, di Artilafo, delle cee, di Nuccio Pine, di Oscare, della sora Roga, di Cruccette, di Biasciantingoli, dello Sceriffo, di Ezra Pound, di Ruggine e Rivolvere, dei dazi e delle dogane, della Soldatina, di Giannimorandi, dello Scarababau … Afo ci presenta, in questa fantasmagorica sfilata di personaggi veri e vissuti, anche se da “Corte dei Miracoli” potrebbe dire qualcuno, gente d’altri tempi di cui è perso lo stampo (…) Le parole di Afo sono musicali, colorate … piene di sapori, profumi, odori delle nostre strade, fra passato/presente e forse futuro. Nei vicoli di questa nostra città, d’altronde, vivono storie, ombre e luci, da rivelare, sussurrare, raccontare.

Credo che nessuno, meglio di lui, abbia saputo descrivere questi personaggi anche sotto un profilo prettamente psicologico che non li ha resi solo macchiette da bozzetto, ma figure di diversa umanità.

Ed andiamo allora a conoscerne qualcuno, iniziando proprio da uno che ho conosciuto anch’io e che, nell’immaginario collettivo di noi pisani, era universalmente noto come “Lo sceriffo”.

Erano forse gli anni del mito del Far West di John Wayne, e Tom Mix e Biascino al cinema “Pidocchietto” (l’attuale “Mignon”). Se ne andava in giro (Jhon Mike come si faceva chiamare) bardato di cinturone, pistole a fulminanti, stella di latta con tanto di “Marshall” al petto. Si avvicinava furtivo e … “Manin’arto … sono lo sceriffo…o la borsa o la vita!” L’effetto della grottesca rapina, con questa mezza sega nei panni di bullo da “pidocchietto”, che per dipiù scaravolta le funzioni di un tutore dell’ordine riducendolo a bandito, susciterà tale fou rire che mollare la borsa assume il sapore di una ricompensa.

Un altro personaggio “mitico” di quei tempi era Gianni morandi che Afo così ci presenta:

Per quanto incongruo potesse sembrare, per quanti anni luce lo dividessero dalle proprie brame beverecce, il refrain prediletto riferiva “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte …”, gli verrà perciò appioppato quel Giannimorandi che, accompagnandolo, dispensava da ulteriori approfondimenti anagrafici e tribolazioni araldiche. (…) Eccotelo in Borgo, garbato con tutti e sul volto un’espressione di costante candore, allunga l’occhio su sciami di belle figliole e intona goffo: “Non son degno di te … non ti merito più …”

Perennemente ubriaco, ciabattava per Pisa con i suoi passi incerti i quali, invece di condurlo dove si smercia il niveo prodotto (il latte), lo conducevano in piazza delle Vettovaglie presso un’insegna che solleva da ogni rompicapo merceologico : “La mescita”, poi passerà al circolino “Nuova Vita” in via La Foglia “ sovente equivocato come “Bua dell’anarchici”; forse per la fama d’immaginare gli anarchici dediti al fiasco del vino.

Leggendaria rimane la sua risposta a chi sosteneva che tutti i giorni prendeva una sbornia:

Esso sostiene in qualche raro momento in cui la lingua si spalloccola, che no!, non è vero che tutti i giorni piglio una sbornia, sosteneva invece di averne presa una sola molti anni prima ed essersela cullata, coccolata con amore e fedeltà: è ancora qui con me, fedele nella promiscuità più devastante alla sua prima cotta.

Divertenti, poi le pagine che raccontano le varie tipologie di frodi nei confronti del Dazio; a quei tempi, infatti esistevano tra i vari comuni le barriere doganali e chi veniva da un comune all’altro dveva pagare il dazio (una specie di attualeIVA), un’imposta indiretta sui consumi che colpiva la circolazione dei beni.

Tra le frodi più comuni, quella di nascondere un quarto di manzo, due o tre agnelli o anche un maiale intero dentro una bara o quella messa in atto da certe spiritose popolane rese incinte da prodotti alimentari di ogni risma; ma quella più famosa resta questa che ora vi riporto:

Fra le frodi celebri ci fu quella di un tale che giunto in carrozza verso mezzanotte alla Porta Nuova chiese gli fosse aperta per passare in città. La guardia vedendo le tendine calate ammiccò al vetturino strizzando l’occhio con ammaliziata birberia, mentre spinto dalla curiosità e anche per fare un po’ dispetto, aprì lo sportello. Vedendo che il signore imbarazzato fingeva di ricomporsi, la guardia, sbirciando la signora con una cuffia fitta fitta tirata giù per non essere vista, richiudendo rumorosamente lo sportello fece al cocchiere: “Andate andate, voi potete andare”. Ma la signora fra i veli altro non era che una maiala, una maiala maiala senza eufemismi, una maiala vera e senza mezzi termini, in carne e ossa, sì insomma una maiala travestita da donna!

“Bimbi piangete che mamma ve la compra!” tuonava d’estate alla stazione del Trammino, che da piazza Sant’Antonio portava a Marina, lo Scarababau, il venditore di menta.

Negli alacri mattini della menta Scarababau è sempre il primo ad accogliere famiglie trafelate e casiniste, ingombre di fagotti, tegami di zuppa e fiaschi di vino ed altri vettovagliamenti da ribotta, e ingombre di nonne e zie e bimbettacci urlanti, mocciosi e anelanti nient’altro che la menta.

E infine, vorrei concludere, ricordando un altro personaggio mitico di quei tempi, Gina la Sordatina

La Sordatina è figlia, nipote e pronipote di altrettanto splendide peripatetiche dette ognuna a loro volta e di volta in volta la Sordatina perché specialiste nel sollazzare le soldataglie di tutte le guerre e di tutti gli eserciti. Di tutte le armi. Mezza storia delle soldataglie trascorse sul nostro suolo è trascorsa anche fra le loro cosce.

E’ a malincuore che interrompo questo breve viaggio nel libro di Afo, perché ad ogni pagina si incontra una sorpresa, una magia; devo per motivi di spazio tralasciare altri indimenticabili personaggi, altri ambienti, altre storie.

Ma un’ultima osservazione è d’obbligo: Afo Sartori è stato tra l’altro un raffinato e coltissimo intenditore di jazz, tenendo per molti anni su “Il Tirreno” una sua seguitissima rubrica ed ecco come lo ricorda il trombettista Paolo Fresu:

"Forse molti di voi non sanno chi era Afo, la gente di Pisa e della Toscana lo ha conosciuto e soprattutto, grazie a lui, ha potuto conoscere il jazz. Un uomo di un altro tempo che ha cantato la musica afro-americana in tempi non sospetti innestandola nella cultura italiana. Un uomo con i baffi schietto e cordiale ma, soprattutto, appassionato di jazz e di vino. Conservo gelosamente Suono DiVino da lui autografato oltre che altri testi. Tra tutti Gente di Pisa, che esprime il suo amore per i pisani oltre che per l’uomo e per la vita. Con Afo se ne va un pezzo di mondo giacché il suo racconto è stato la più vasta narrazione dell’universo umano. Alla sua famiglia e ai suoi amici va il mio e il nostro pensiero".

L’autore

Afo Sartori (Pisa 1940- 2022) ha pubblicato Pisa per esempio, 1983,Santi a dispetto del paradiso –Sotto le stelle del jazz, 1985, Suono …di…vino, 1992, Si vede non era destino, 1999, Gente di Pisa, 2004 e 2012, Autre, 2015