Brevemondo domenica 07 dicembre 2025 ore 06:30
Trump e il mondo, Netanyahu e Corno d'Africa

La National Security Strategy degli Usa, Netanyahu chiede la grazia per il suo processo e lo spettro dell'ennesima guerra tra Etiopia ed Eritrea
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La niente affatto sorprendente National Security Strategy
In questa settimana è stata pubblicata la National Security Strategy degli Stati Uniti, un documento che viene redatto periodicamente - di solito, una volta per ogni mandato presidenziale - con l’obiettivo di aggiornare la strategia di sicurezza nazionale di Washington. Il testo, come capita spesso, è stato definito da molti giornali e analisti come una profonda riforma dell’approccio statunitense al mondo, una svolta inedita per il Paese giunto al secondo mandato del presidente Donald Trump. Che, di fatto, avrebbe da solo cambiato le sorti della superpotenza americana, semplicemente firmando un documento.
In realtà, il testo presenta la posizione assunta dagli Stati Uniti ormai da diversi anni, ben prima dell’avvento di Trump. Filo conduttore, infatti, è la riduzione della sovraesposizione nel mondo, con particolare attenzione al ruolo di Washington nell’emisfero occidentale, vera e propria sfera d’influenza, e al ruolo dei Paesi europei, che devono cominciare a contribuire maggiormente alla propria difesa per sgravare il numero uno, impegnato come non mai nella sfida alla Cina nel quadrante dell’Indopacifico. Ciò che più conta - e il documento lo ripete più volte - è “ciò che funziona per l’America”, riproposizione dell’America first con cui lo stesso Trump ha vinto due elezioni.

Oltre al cosiddetto “corollario Trump” alla dottrina Monroe, che consegna a Washington il compito di supervisionare l’emisfero occidentale per evitare che, al suo interno, potenze esterne - leggasi, Cina - possano insinuarsi economicamente, politicamente o militarmente, alle nostre latitudini ha attirato l’attenzione soprattutto il passaggio dedicato all’Europa. Solitamente, quanto affermato nel documento è stato presentato con un vero e proprio de profundis: gli Stati Uniti abbandonano il continente, gli Stati Uniti criticano l’Europa ma non la Russia, gli Stati Uniti non difenderanno l’Europa, eccetera. Ma, anche in questo caso, si tratta di un approccio che Washington ha ormai da tempo: certamente Trump usa un linguaggio più ruvido di Obama e Biden, ma l’insofferenza nei confronti degli europei è datata. Gli attacchi sul fenomeno migratorio e sui governi che sovvertirebbero la volontà popolare - destinati a far “estinguere la civiltà europea” - sono strumentali a ribadire questa posizione. Che piaccia o meno: ritenere Trump “confuso”, “stanco” e addirittura “"malato” non farà tornare l’amore - se mai vi è stato - tra le due sponde dell’Atlantico.
Netanyahu e il “processo di Bugs Bunny”
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, mentre il suo omologo qatariota Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani ha affermato come la tregua nella Striscia si sia ormai ridotta a una mera assenza di ostilità costantemente a rischio di violazioni, si è rivolto direttamente al presidente della Repubblica Isaac Herzog per ottenere la grazia, in modo tale da essere dispensato dal processo per corruzione e frode che lo vede imputato ormai da diversi anni.
Sin dall’inizio dell’ennesimo capitolo della guerra arabo-israeliana, ovvero dal 7 ottobre 2023, in molti hanno affermato come il conflitto fosse assai conveniente per la carriera politica di Netanyahu. Proseguire, infatti, gli avrebbe permesso di mantenere la propria carica di premier nonostante un governo traballante; una volta lontano da quel ruolo, per lui si sarebbe riaccesa la questione della corruzione e della frode, che si trascina ormai dal 2020. In generale, si tratta di tre filoni distinti, che però vengono ricompresi in una sorta di maxi processo. Che Netanyahu ha definito "una farsa alla Bugs Bunny".

E se il processo, in tutti questi anni, ha creato numerose fratture politiche attorno a una figura già piuttosto polarizzante come quella di Netanyahu, la richiesta di grazia in un documento di 111 pagine spedita dallo stesso premier a Herzog ha innescato un dibattito ancor più feroce. Netanyahu ha spiegato come, da parte sua, preferirebbe dimostrare la sua innocenza in tribunale, ma che la situazione del Paese richiede di ricucire gli strappi e ridare fiducia alle istituzioni nazionali. Un sondaggio, però, ha dimostrato come la maggioranza degli israeliani si opponga alla concessione della grazia: il 53,2% degli intervistati ha infatti detto di non essere d’accordo con questa possibilità.
Tigrè, un nuovo conflitto all’orizzonte?
Nel Corno d’Africa, nonostante la pace siglata nel 2022 in Sudafrica, c’è il serio rischio che al confine tra Etiopia ed Eritrea scoppi nuovamente una guerra. Tre anni fa, a Pretoria, il governo di Addis Abeba e i rappresentanti del Fronte popolare di liberazione del Tigrè (Fplt) - una delle regioni dell’Etiopia - avevano infatti firmato un cessate-il-fuoco patrocinato dall’Unione Africana, che avrebbe dovuto porre fine al conflitto esploso nel 2020. L’equilibrio nella regione, però, è precario ormai da decenni.
L’esecutivo della regione, dominato appunto dal Fplt, ha infatti accusato il governo centrale Addis Abeba di aver violato l’accordo, ordinando degli attacchi coi droni proprio contro alcuni obiettivi nel Tigrè. Stavolta, però, se dovesse deflagrare un nuovo conflitto, Etiopia ed Eritrea non sarebbero verosimilmente sullo stesso fronte. Mentre tra 2020 e 2022 Asmara aveva dato manforte ad Addis Abeba per contrastare il Fplt, stavolta potrebbe astenersi se non addirittura sostenere il governo del Tigrè. Il ministro degli Esteri etiope, Gedion Timothewos, ha anche interpellato il segretario delle Nazioni Unite Antonio Guterres, accusando l’Eritrea di star complottando con i “ribelli” del Fplt per muovere guerra contro l’Etiopia.

La stessa Etiopia, in ogni caso, da tempo sta aumentando sempre più la pressione verso l’Eritrea. Entrambe ex colonie italiane, i due Paesi vivono momenti completamente diversi: mentre l’Etiopia è in enorme crescita demografica ed è uno dei Paesi africani in maggior sviluppo, l’Eritrea si trova prigioniera di una profonda crisi economica e alimentare, esasperata dalla lunghissima dittatura del presidente Isaias Afewerki, in carica dal 1993. Proprio per questa profonda differenza, il premier etiope, Abiy Ahmed, si è espresso più volte sulla necessità “storica, legale ed esistenziale” per il suo Paese di accedere al Mar Rosso. Uno sbocco individuato nel porto di Assab - primissima colonia italiana in Africa - che ricade però nel territorio eritreo: una rivendicazione che alimenta le incertezze per l’intero Corno d’Africa.
Il pezzo della settimana
Che Trump coltivasse una certa avversione verso i leader europei era cosa ben nota: dal disprezzo per Angela Merkel al rapporto in chiaroscuro con Emmanuel Macron, il newyorchese non ha mai nascosto il suo pensiero. Non solo suo, però, perché è quello di buona parte degli americani. Non un fenomeno nuovo: il pezzo di Joshua Keating - che non è stato scritto questa settimana - per esempio fa riferimento alla retorica “anti-europea” del candidato repubblicano alla presidenza del 2012, Mitt Romney. Uno che non va particolarmente d’accordo con Trump, ma che evidentemente condivide questa propensione. Si legge qui.
La canzone della settimana
Restare o andarsene? Se restiamo, come? Facciamo pagare la Nato interamente agli europei? Se ce ne andiamo, invece, questi si attrezzeranno per difendersi? Dubbi che, in altri modi, si ponevano anche i The Clash.
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