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domenica 02 aprile 2023 ore 00:05

NICOLO' SASSETTI E L'IMBOSCATA DEL SERRAVALLINO

di Ilaria Ferretti



PECCIOLI — Quando suo padre lo accompagnò al banco di Raffaele Giannotti perché imparasse a comprare, a vendere, e a divenir mercante, fu subito chiaro a Nicolò che la sua felicità gli sarebbe costata cara e che avrebbe dovuto penare per ottenerla a dispetto di quanto suo padre e sua madre avevano progettato per lui.

Nicolò Sassetti era nato a Bagnaia di Viterbo da famiglia né ricca né povera, nutriva un profondo disinteresse per il commercio e fin da bambino avea mostrato viva curiosità per le armi e per l'arte militare.

Poco più che fanciullo, pel carattere focoso, spesso veniva alle mani con i ragazzi dei rioni avversi - il Gano, Nasetto, Francesco Guerrieri - e talvolta dovevano intervenire per levarglieli da tiro, tanto li aveva malridotti.

Il fratello Leonardo, lui, aveva un altro carattere; gli era maggiore di due anni e quando il padre lo aveva sistemato al banco di Messer Raffaele aveva incominciato a prendere gusto al lavoro e a farsi valere. Ma Nicolò pensava: il Giannotti stesso non ha che una casetta nella strada dietro alla piazza del mercato: come posso divenir ricco standogli dietro?

E lui ricco ci voleva diventare: sognava un bel podere con frutteti e vigne, boschi per cacciare e una villa dove venir servito come un signore. Qualche volta, di notte, lo sognava il suo podere: le vigne cariche d'uva, gli uccelli che volavano sopra le teste e un balcone dove affacciarsi e guardare i filari a perdita d'occhio. E una volta che il sogno fu più vivido che mai si svegliò pieno di baldanza e, senza mettere tempo in mezzo, andò fino a Viterbo e si arruolò con una compagnia di ventura; scelse quella guidata da Pirro Baglioni Colonna, che combatteva al soldo dell'imperatore Carlo V d’Asburgo e prometteva le più grandi imprese.

Correva l'anno 1529. L'Italia era allora divisa in una miriade di principati e staterelli che facevano e disfacevano alleanze per cercare di resistere alle aggressioni che arrivavano da fuori e da dentro la penisola.

Tra le milizie mercenarie Nicolò si sentiva al posto giusto, pronto ad imparare il mestiere delle armi; aveva allora vent'anni e con l'ardore dell'età sua partì, e insieme ad altri tremila soldati di ventura seguì il comandante Colonna nelle campagne militari attraverso l'Europa.

E seppe dei piedi che fumano dopo giorni di cammino; della cavalleria che fa mangiare la polvere ai fanti e degli allenamenti con spade a due mani sulle spianate all'ora del tramonto.

La compagnia impiegò due settimane per arrivare in Ungheria, dove respinse l'avanzata dei turchi del sultano Solimano, poi si spostò a Vienna e ancora combatté contro i turchi per liberare la città dall'assedio. Nonostante i brillanti risultati però i viveri cominciarono a scarseggiare e le paghe ad arrivare con ritardo e diminuite rispetto al pattuito.

Sulla strada per Innsbruck, i fanti comandati dal Colonna si ribellarono; il comandante era un diavolo di combattente ed era giusto coi soldati, ma le paghe e i vettovagliamenti avevano da esserci. Anche Nicolò si schierò con gli ammutinati; di lì a poco tutto l'esercito si sciolse e i soldati rientrarono in Italia alla spicciolata.

Nicolò si unì alla banda di Filippo Ridolfi, del Cacio e del Batacchia. Dopo due settimane di cammino arrivarono a Firenze.

Era la fine di ottobre, la città era allora sotto assedio da due settimane. L'esercito mercenario di Carlo V d’Asburgo premeva alle porte di Firenze; tra i suoi capitani di ventura c'era lo stesso Pirro Baglioni Colonna alla testa di soldati spagnoli, tedeschi e italiani, esaltati all'idea di poter mettere a sacco Firenze, la città degli ori, dei broccati, delle gemme, dei preziosi.

Nicolò invece si concentrò sul fatto che una città tanto ricca non avrebbe fatto mancare danari ai suoi soldati.

Penetrò entro le mura calandosi nel buio, e gli sembrò di scendere in un pozzo oscuro. Pochi istanti dopo le sentinelle cittadine gli piantarono davanti agli occhi la luce delle torce:

— Chi sei? Cosa vuoi? — si sentì chiedere, mentre qualcuno gli carezzava il collo con la lama di un’alabarda.

— Portatemi dai Dieci di guerra! — prese a strillare Nicolò — Voglio arruolarmi nel vostro esercito.

E condotto innanzi alla magistratura della città, fu spedito insieme a un altro centinaio di soldati a Empoli, a sostegno della Repubblica di Firenze sotto il comando di Francesco Ferrucci.

Il Ferrucci compiva allora continue incursioni nella Valdelsa e in Valdera contro gli imperiali che s’erano insignoriti di Castelfiorentino, di San Miniato, di Palaia, di Peccioli.

I primi due castelli, assaltati dal Ferrucci e dai suoi soldati, erano tornati in mano alla Repubblica; Palaia e Peccioli, nel novembre di quell’anno, erano ancora sotto il comando asburgico, che vi aveva posto a presidio ottocento fanti e duecento cavalli.

Sulla collina dirimpetto a Palaia, guardando verso Firenze, il castello di Montopoli Valdarno restava in mano a fiorentini, e qui Francesco Ferrucci volle inviare a presidio un piccolo gruppo di soldati, e Nicolò Sassetti fu tra questi.

L'armata fiorentina arrivò una mattina di novembre, la campagna fumava per il freddo. Nicolò camminava con il Cacio, che aveva ritrovato a Empoli, passato anche lui tra le fila dei fiorentini.

Il comandante Michele Salvini, coi suoi fedeli, li accolse a cavallo e li condusse al grande Casone ai confini del bosco dove avrebbero alloggiato.

Nei giorni che seguirono l'impegno più pressante fu quello delle sentinelle: smonta, rimonta, di giorno, di notte, anche per molte ore di seguito, sempre dalla torre di San Matteo: da lì, nei giorni chiari, rivolgendo lo sguardo a ovest si scorgeva il mare.

Per il resto a Nicolò e agli altri soldati restava tempo. Per inscenare finti duelli e impratichirsi con l'uso di picche e di spade bastarde, per bivaccare lungo le strade del paese, per sostare in piazza e giocare a dadi e a carte, in special modo a Zara e a Baccarà.

Due o tre volte a settimana arrivava Ser Ceccotto da Empoli con i dispacci del Ferrucci nella borsa da consegnare al comandante Michele, che spesso radunava i soldati per metterli a parte di qualche novità.

Un pomeriggio Nicolò se ne stava in piedi accanto a Pardo, appoggiato al muro, con le mani ben piantate sotto le ascelle a guardare il Cacio che perdeva una partita dietro l'altra, quando dal palazzo di fronte colse un movimento lieve alla finestra, come un refolo di vento che dava un fremito alla tenda.

Poi accadde di nuovo, e tra le pieghe del drappo ricamato a Nicolò parve di intravedere un profilo di fanciulla.

Nei giorni successivi la scena si ripeté e Nicolò comprese con certezza che si trattava di una ragazza che lo stava osservando: ne intuì la figura slanciata e i capelli neri che ondeggiavano mentre si muoveva dietro la finestra.

E un giorno la ragazza scostò la tenda e si mostrò, e rivolse a lui, e proprio a lui, uno sguardo rapido che lo toccò come la punta di un fioretto.

Nei giorni successivi, quando non era impegnato a requisire galline ai contadini o a cercar legna nel bosco per scaldare le stanze del Casone, Nicolò sostava sulla piazza, dirimpetto al palazzo della ragazza, come la più solerte delle sentinelle. Si dette da fare per raccogliere notizie in giro e venne così a sapere che la fanciulla che gli stava abbacinando i pensieri era la figlia di Piero Donati, ricco commerciante e gonfaloniere di Montopoli, e che il suo nome era Simonetta.

Simonetta.

Simonetta.

Simonetta. Simonetta. Simonetta. Simonetta.

Cominciò a masticare quel nome di continuo, a farlo rotolare nella bocca per giornate intere, come faceva qualche volta con i noccioli di pesca.

E un mattino, finalmente, avvenne che Nicolò vide la porta del palazzo aprirsi e la giovane uscirne. Lui aveva appena smontato la sentinella notturna, lei era in compagnia della governante e insieme si avviavano verso la piazza del mercato. La ragazza rivolse di sfuggita lo sguardo nella sua direzione. Lo aveva visto? Nicolò non ne era sicuro ma di lì a poco un fazzoletto ricamato cadde dalla veste della giovane. Il ragazzo fu svelto, e senza esitazione lo prese da terra, raggiunse le due donne e lo porse alla ragazza. E lei lo ricevette, lo ringraziò tenendo gli occhi bassi, e solo per un istante fece balenare uno sguardo, vivo come uno spigolo, verso di lui.

In quei giorni nel borgo si andava preparando la festa dell'olio. Cominciò a spargersi la voce che sarebbe arrivata anche un po' di carne da arrostire e qualche musico avrebbe fatto danzare gli uomini e le donne sulla piazza.

Il giorno successivo Nicolò al mattino presto era lì, e ancora si aprì il portone e ne uscirono Simonetta con la governante; e dopo una decina di metri il fazzoletto ricamato ancora cadde a terra. Nicolò scattò e lo raccolse. Raggiunse la giovane, e mentre la governante scambiava un saluto con una passante, Nicolò porse il fazzoletto alla ragazza e le sussurrò piano:

— Madonna Simonetta, spero di vederla domani alla festa.

Negli occhi di lei, mentre accennava un lieve movimento con il capo, guizzò una piccola luce. E mentre la giovane e la governante riprendevano il cammino, Nicolò rimase ritto in piedi in mezzo alla strada; e si sentì tramortito, come la volta, anni prima, che Nasetto gli si era rigirato e lo aveva colpito a sorpresa con uno scudiscio.

Quella notte, dormendo profondamente, vide di nuovo in sogno il podere dei suoi desideri, vide gli ulivi, i vigneti. Poi la villa, e al centro della facciata il balcone. E vide la finestra aprirsi e uscirne Simonetta, che si stirava le braccia, si allungava come se si fosse appena alzata e si guardava intorno sorridendo.

Il mattino dopo il risveglio fu brusco. Per ordine del comandante Michele Salvini si dovettero adunare di fronte al Casone e lì gli fu comunicato che quella sera stessa, un'ora dopo il tramonto, si sarebbero incontrati tutti in fondo a via del Bosco e sarebbero partiti. Per dove, al momento, non era dato saperlo.

Addio festa, addio alla danza di sguardi con Simonetta. Dopo giorni inoperosi - pensava Nicolò - proprio quella sera si doveva dare il via ad un'azione militare? E poi di che si trattava? E che cosa sarebbe dovuto accadere?

L'operazione doveva essere roba grossa perché di lì a qualche ora giunse da Empoli il capitano Amico da Venafro, e con lui cento fanti e trenta cavalli.

Attesero che facesse buio, poi fanti e cavalieri fiorentini scesero il crinale di Montopoli, in direzione di Palaia. Era il decimo giorno del mese di dicembre, un vento freddo fischiava in mezzo alle foglie e passava come una lama sui volti dei soldati. Non lontano si sentiva scorrere un corso d'acqua. Nicolò scendeva a fianco dei compagni Pardo e Pacini. Di tanto in tanto guardava indietro, verso Montopoli: vedeva il riverbero del grande fuoco acceso in piazza per la festa e pensava a Simonetta, che forse proprio in quel momento stava cercando il suo volto tra quello dei partecipanti. Echi della musica arrivavano a folate.

Camminando arrivarono al torrente.

— La Chiecinella è ingrossata per le piogge — disse Meino, un giovane secco e lungo originario della zona — seguitemi. Si mise alla testa del piccolo gruppo con cui marciava Nicolò e lo guidò in un punto dove l’acqua era più bassa. Attesero il resto della truppa rimasto indietro per le difficoltà del guado, poi proseguirono tutti risalendo sulla collina dirimpetto, in direzione sud ovest, fino alle Fontanelle di Marti. Continuarono e raggiunsero una radura a mezza costa.

— Eccoci a Serravallino — sentenziò Meino, affacciandosi sulla valle di sotto.

Su quello spiazzo il capitano Amico da Venafro e i suoi luogotenenti fecero disporre i soldati in cerchio e spiegarono cosa sarebbero andati a fare. Francesco Ferrucci aveva ricevuto una spiata: l'indomani mattina le truppe imperiali di stanza a Palaia sarebbero discese dal borgo e avrebbero proseguito verso Montopoli. E loro erano lì per tendere un'imboscata, per attaccarli e batterli. Il capitano concluse il discorso con una raccomandazione: a capo delle truppe asburgiche ci sarebbe stato un comandante d'esperienza: Pirro Baglioni Colonna, motivo in più per muoversi con grande attenzione. Nicolò ebbe un sussulto; ci fu uno scambio di sguardi con il Cacio - insieme erano stati sotto il comando di quel capitano di ventura - poi tornò a concentrarsi sulle indicazioni del capitano fiorentino.

Una volta designate le sentinelle, Nicolò si buttò a terra; il freddo mordeva le guance; sassi e radici gli premevano la schiena, ciononostante, cullato dal parlottare di altri soldati sdraiati vicino a lui, con il corpo intirizzito per il freddo, cadde addormentato.

Un'ora prima dell'alba i soldati fiorentini erano già tutti svegli e in posizione. Si mantennero in silenzio per circa due ore, poi si cominciarono a sentire i primi rumori delle truppe imperiali che scendevano giù da Palaia: lo scalpiccio dei cavalli che si mischiava a un garbuglio di suoni di lingue diverse. I fiorentini, sul crestone del Serravallino, aspettavano immobili. Nascosti nella vegetazione, guardarono dall'alto le milizie imperiali avvicinarsi, poi le osservarono mentre scorrevano sotto di loro. E i fiorentini ancora fermi, silenziosi. Solo quando gli ultimi soldati passarono appena oltre la loro posizione, Amico da Venafro dette il segnale e un primo gruppo cominciò a scendere, piano, senza far rumore. Aggredirono gli ultimi della fila degli asburgici, che si ritrovarono con la gola tagliata senza nemmeno capire cosa fosse successo. Quando il resto dell’esercito si accorse dell’imboscata era già tardi, gli archibugieri fiorentini si erano piazzati nella piana e avevano cominciato a sparare; buttando giù i nemici a mazzi.

Allora tutti i fiorentini scesero giù, a rotta di collo, fanti e cavalieri, si buttarono nella macchia muovendosi a piccoli gruppi, mentre gli asburgici si sparpagliarono nel bosco ognun per sé e ciò fu per essi la rovina perché divennero prede deboli e sole.

E si udirono colpi di picche, alabarde, spade a due mani; e ci fu fracasso di partigiane, di lance, di mazze ferrate, e ovunque groviglio di corpi e di armature.

Mentre duellava in uno spiazzo erboso, Nicolò vide passare davanti a sé un cavaliere dalle braccia mozzate che si andava a sfracellare col suo cavallo; e sentì qualcosa colpire all’improvviso la sua gamba, la testa barbuta di un soldato tedesco che rotolava per terra grondando sangue.

Nicolò continuava a combattere con impeto; vicino al rio duellò a lungo con un fante spagnolo, alla fine lo infilzò con la spada, lo colpì a morte e lo fece cadere in acqua.

Fu allora che sentì un lamento provenire da poco lontano; si spostò più giù lungo il torrente e vide in mezzo all'acqua un cavallo che si dibatteva e un cavaliere che annaspava.

— Soldato, ti conosco, e tu conosci me. Salvami.

Sì, Nicolò lo riconobbe, era il comandante Pirro. Proprio lì, davanti a lui.

Se lo avesse aiutato e qualcuno lo avesse visto avrebbe rischiato grosso. Aveva ancora nelle orecchie le parole dell’ultima lettera del Ferrucci che il comandante Michele aveva fatto leggere ad alta voce davanti a tutti: si figuravano castighi orrendi per coloro che si fossero arresi combattendo “senza isforzo” e si prometteva l’impiccagione per quei soldati che “fatti prigioni li nimici” li avessero risparmiati dalla morte.

Nicolò fece per allontanarsi. Il comandante Pirro gridò più forte:

— Ho con me le paghe pei miei soldati!

Nicolò si fermò. Dandogli le spalle, domandò:

— State dicendo la verità?

— Quant’è vero che sono un militare. Il mio borsello è pieno di scudi soldato, se non mi salvi lo porto a fondo con me.

Nicolò si voltò e guardò in faccia il Colonna:

— Come posso esserne sicuro? Buttatelo a terra.

Intanto il cavallo si dimenava disperato e il Colonna tossiva e sputava insieme:

— E io come posso essere sicuro che non ti allontanerai coi miei soldi?

Nicolò si avvicino di qualche passo, fino alla riva del torrente.

— Con tutto il rispetto comandante, siete voi quello che sta rischiando di più.

Il comandante ormai stremato bofonchiò qualcosa, poi lanciò il borsello sulla riva. Nicolò rimase fermo qualche istante, poi dette un'occhiata intorno, raccolse il borsello e lo infilò nella sacca.

Guardò in giro, vide un grosso ramo, lo afferrò e ne buttò un lato vicino al Colonna, mentre tratteneva l'altro lato con tutta la sua forza. Quello si aggrappò al ramo, risalì con fatica, si buttò sulla riva. Nicolò si fermò a pochi metri da lui, il comandante Pirro ansimava come un mantice.

— Mi hai salvato la vita soldato. Ora togliti subito di qui sennò giuro che ti ammazzo e mi riprendo i miei denari.

Fu tutto quello che gli disse. Nicolò sgattaiolò via veloce, poi, prima di riavvicinarsi alla mischia, si nascose dietro un masso e tirò fuori il borsello. Lo soppesò con attenzione e lo aprì: era gonfio di scudi. Davanti, con fili d'oro, erano state ricamate le iniziali del condottiero: PBC.

Lo ripose, poi si ributtò nel combattimento, che comunque ormai era sul finire: gli imperiali erano stati sbaragliati. Rotti, ammazzati, sconfitti: più di cento erano state le perdite tra i soldati dell'esercito asburgico.

I fiorentini vittoriosi risalivano verso Montopoli esultando, cantando e gridando. E nella baldanza del momento cominciò a diffondersi la voce che lo stesso comandante Pirro Baglioni Colonna fosse rimasto ucciso nella battaglia. La notizia fu creduta e corse di bocca in bocca.

Nicolò risalì silenzioso il crinale, in mezzo al chiasso dei festeggiamenti.

Quella sera la veglia al Casone si protrasse fino a tardi. Da Empoli giunsero vino e carne e si accesero fuochi senza badare al risparmio. Quando Nicolò si buttò sul letto era sfinito. Nel cuore della notte si svegliò di soprassalto e subito con la mano si tastò l'addome. Il borsello era lì, al sicuro; poi sprofondò di nuovo nel sonno.

Il giorno dopo fu tempo di bilanci. La vittoria era stata netta ma sul campo erano rimasti quattro soldati fiorentini e l'indomani il comandante Michele ridiscese a cavallo sui luoghi della battaglia, portando alcuni fedelissimi con sé. I corpi furono ritrovati, il comandante fece scavare le fosse e seppellirli. In quel mentre, passò di lì un pastore con le sue pecore. Vide i soldati, si spaventò, ma il comandante Michele lo rassicurò e volle parlarci. L'uomo veniva da Palaia e il comandante voleva notizie fresche dal castello.

— Ditemi, pastore, che accade in Palaia?

— I soldati stanno curando i feriti - rispose l'uomo - e il comandante Colonna dirige le operazioni.

Il Salvini trasalì:

— Che dite? Non è forse morto il Colonna?

— Le genti in Palaia dicono essere vivo, anzi dirrò che è stato salvato mentre era più di là che di qua. E sempre stando alle voci, il salvataggio è stato compiuto da un soldato fiorentino.

E fu così che il tarlo del tradimento cominciò a farsi strada nella mente del comandante. Michele lo combatteva e cercava di scacciarlo: perché mai doveva credere a un pastore quando aveva davanti a sé tutti i giorni gli sguardi franchi e gagliardi dei suoi ragazzi?

Nell'aria c'era movimento, Ser Ceccotto andava e veniva da Empoli coi suoi dispacci, e si facevano ipotesi di spostamento di una parte dei soldati verso Volterra. Nicolò aveva ripreso a sostare di fronte a Palazzo Donati ma Simonetta si mostrava appena da dietro le tende. Forse era rimasta delusa dalla sua assenza la sera della festa; i suoi impegni di fanciulla dovevano esser ben lontani da scontri armati, ammazzamenti e bagni di sangue.

Allora Nicolò tornò a sedersi più spesso al tavolo da gioco e a tirare i dadi con i compagni. E avvenne un pomeriggio che gli capitarono delle giocate buone, una in fila all’altra. Puntava piccole cifre e vinceva. Allora cominciò ad alzare la posta, e ogni volta pescava danari dal borsello nascosto nella sacca che portava sempre con sé. Rovista, rovista, il borsello cadde a terra. Allora il Cacio, scherzoso com'era, afferrò il borsello e prese ad agitarlo, così, per gioco. Vide il ricamo con i fili d'oro ma non sapeva leggere e continuò a ridacchiare.

— E questo cos'è? Un dono della bella Simonetta? Ah ah ah…

E fu in quel momento che passò di lì il comandante Michele.

Vide la scena: Nicolò contrariato da una parte e il Cacio che correva intorno al tavolino da un’altra.

— Beh, cos'è questo baccano?

Michele prese il borsello di mano al Cacio per porgerlo a Nicolò. E quando l’oggetto fu tra le sue mani gli fu inevitabile soppesarlo - e ne intuì il contenuto - e leggere le lettere PBC ricamate davanti. Il suo sguardo si incrociò con quello di Nicolò.

Il comandante chiese:

— Qual è il tuo nome per esteso soldato?

Nicolò esitò un istante, poi disse:

— Nicolò Sassetti, comandante.

E Michele, con il suo tarlo in testa, capì.

Gli ordini del Ferrucci in casi come questo non davano margine di interpretazione e Michele fece quello che si doveva fare. Nicolò fu trascinato dai fedelissimi del comandante nella balza di sotto, nei pressi di un boschetto. Era il 16 dicembre 1529 e il ragazzo aveva da poco compiuto ventun anni.

Gli amici guardavano impietriti altri soldati preparare il cappio e girare la corda intorno al ramo di una quercia robusta.

Simonetta aprì la finestra in tempo per sentir gridare, per veder scalciare. Poi più nulla, silenzio.

Cacio ritornò mesto al tavolino, Pardo si sedette accanto a lui senza dire una parola.

Pacini si avvide che dianzi qualche moneta era uscita dal borsello ed era caduta a terra. Altri che erano lì si accorsero che le monete non erano poche e cominciarono a raccoglierle.

E il Cacio, Pardo e Pacini si affrettarono per raccoglierne più di tutti, ficcandosele in tasca e nella sacca.

Dalla finestra, Simonetta vedeva il corpo di Nicolò che dondolava al vento. Poi Michele lo fece calare dall’albero e adagiare a terra. 

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"Nicolò Sassetti e l'imboscata del Serravallino" di Ilaria Ferretti è stato realizzato alla fine del Corso di scrittura dal titolo Storie a tinte gialle, promosso dalla Fondazione Peccioli per l’Arte e condotto dal giornalista Andrea Marchetti alla Biblioteca Fonte Mazzola.


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