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Sigmund Freud e l’eutanasia (prima parte)

di - sabato 31 dicembre 2022 ore 07:30

La deresponsabilizzazione rispetto all’essere causa del global warming e quindi della probabile fine della vita umana sulla terra è qualcosa di connaturato al “disagio della civiltà” dell’uomo. Nell’”Interpretazione dei Sogni” del 1900 Sigmund Freud scriveva: “Il nostro inconscio non crede alla possibilità della propria morte e si considera immortale. Ciò che noi chiamiamo il nostro inconscio, cioè gli strati più profondi della nostra coscienza, quelli composti da istinti, in genere non conosce niente di negativo, ignora la negazione (i contrari vi coincidono e vi si fondono) e, di conseguenza, la morte, alla quale possiamo attribuire solo un contenuto negativo.”. Nell’anno 1900 la popolazione umana sulla Terra superava il miliardo e mezzo e c’era l’illusione della crescita infinita, nonostante gli ammonimenti di un secolo prima fatti da Thomas Robert Malthus: la crescita della popolazione non decorre parallelamente alla produzione agricola. Fu il “Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato nel 1972 dall’associazione non governativa “Club di Roma”, che portarono alla fine dell’illusione: veniva previsto che, se il tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse fosse continuato inalterato, entro cento anni sarebbero stati raggiunti i limiti dello sviluppo sulla Terra. Un suo aggiornamento del 2004 rifiutò l’ipotesi liberista, secondo la quale la tecnologia ed i meccanismi automatici del mercato sarebbero stati sufficienti ad evitare il collasso del sistema, e propose l’esempio della pesca: lo sfruttamento sempre più intenso e tecnologicamente progredito (sonar, individuazione di branchi tramite satelliti ecc.) di una risorsa naturale di per sé rinnovabile ha condotto al depauperamento della fauna ittica; il mercato ha reagito alla scarsità aumentando il prezzo, trasformando così un alimento per poveri in un alimento per ricchi. Ci addentriamo dunque in un mondo, il cui spartiacque, apparentemente casuale, la “guerra in Ucraina”, sta portando, attraverso la richiesta di sacrifici alle popolazioni, verso l’amara realtà di un mondo capitalistico caratterizzato da consumi crescenti da parte dei "ricchi", da prezzi elevati per effetto della scarsità delle risorse, da impoverimento della maggioranza. Una società sostenibile diventa un’utopia, perché, per l’assenza di solidarietà e di contenimento delle diseguaglianze, vengono favoriti il consumo delle risorse naturali e l’inquinamento, mentre la povertà diffusa espone al peso di una crescita esponenziale della popolazione: i tassi di natalità sono, infatti, alti quando le condizioni di vita sono difficili.

Ma questa consapevolezza conscia non indirizza l’uomo verso la ristrutturazione del proprio inconscio e quindi del contesto socio-economico: prevale l’attaccamento alla futilità del danaro e del potere. Questo attaccamento, d’altra parte, non è proprio solo della storia dell’antropocentrismo, ma anche di ogni uomo non illuminato dalla Vita.

La stessa inconsapevolezza la possiamo riscontrare, infatti, nel decorso dell’attaccamento alla malattia e alla morte di una persona, per altri versi brillante, come Sigmund Freud. Questi seppe intuire che la dipendenza dal fumo o da sostanze si sviluppa nel corso della “fase orale”, cioè nel periodo di dipendenza (alimentare e di apprendimento della madre-lingua) del bambino dalla propria madre, ma non seppe trarne le logiche conseguenze: poiché gli mancava la “retta visione” della complessità dell’esistere, si “focalizzò” sul “complesso di Edipo” e sulla rivalità col padre trascurando il mondo del pre-edipico, del non verbale, che per lui era un “continente oscuro”. Affermava: “La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere malgrado trent’anni di lunghe ricerche, è questa: che cosa vuole la donna?”. Il non-verbale si manifestò al di là delle chiacchiere di Freud fino a ritorcersi contro di lui. Freud era, infatti, ossessionato dalla paura di morire ed ammetteva di non aver mai trascorso una giornata intera senza aver pensato ripetutamente alla morte. Fin da giovane, nel salutare gli amici diceva: “Addio, chissà se ci rivedremo…”, era angosciato dai treni e dalla paura di viaggiare, era superstizioso (pensava che sarebbe morto a 62 anni ed evitava negli alberghi le camere col numero 62), svenne nella sua vita due volte ed in entrambi i casi conversava sulla morte e sull’imbalsamazione con Jung, di cui avvertiva gli “impulsi parricidi” (all’inizio della loro collaborazione Freud aveva visto in lui il suo successore, un suo figlioccio). Il suo attaccamento alla madre si espresse non solo in queste bizzarre fissazioni, ma anche nell’organizzazione routinaria della quotidianità, nelle sue passeggiate circolari, nei mal di testa combattuti con la cocaina, nell’aver sposato una donna di venti anni più giovane, nel suo attaccamento alle due figlie (Sophie e Anna) e nel fatto che, quando nel 1930 era morta sua madre a 95 anni, egli, già malato di tumore, scrisse al suo biografo, Ernest Jones, di avere finalmente guadagnato la libertà di morire, perché era sempre stato ossessionato dall'idea che potessero comunicare alla madre la propria morte.

Ma veniamo all’attaccamento “orale” ai sigari. Egli, a 72 anni, scriveva in una lettera: “Cominciai a fumare a 24 anni, all’inizio sigarette, ma subito dopo esclusivamente sigari, fumo ancora oggi è sono molto riluttante a togliermi questo piacere”. Prima delle riunioni della Società di psicoanalisi la moglie di Freud distribuiva sigari a tutti i presenti ed una ceneriera era davanti ad ognuno. Raymond De Saussure, uno dei primi psicoanalisti analizzati da Freud, ricordava che lo studio del Maestro era una stanza piuttosto scura, che si apriva su un cortile e che il contatto con lui si stabiliva attraverso la sua voce e l’odore dei sigari; Hans Sachs ricordava che Freud era chiaramente irritato se alcuni uomini intorno a lui rifiutavano di fumare; Ernest Jones notò che, nonostante fosse di solito molto educato, Freud aveva l’abitudine di “espettorare e sputare a causa del suo catarro cronico e dell’eccesso di fumo, anche durante le sessioni analitiche... I pazienti che non erano abituati a un simile comportamento potevano mostrare di esserne disturbati, dopodiché Freud li rimproverava per la loro schizzinosità.”. Nel periodo inglese, cioè poco prima di morire, Freud offrì al nipote diciassettenne Harry un sigaro, ma al rifiuto di Harry di questo “dono” Freud lo ammonì: “Ragazzo mio, fumare è una delle più grandi e più economiche soddisfazioni della vita, e se decidi di non fumare, non posso che essere dispiaciuto per te.”.

Nel 1939, un anno dopo essere giunto a Londra, Freud morì per un carcinoma del cavo orale: in quell’anno aveva subito la trentaduesima operazione, e la radioterapia ed era stato dichiarato inoperabile.

Com’è iniziato il calvario di Freud?

La malattia cominciò a manifestarsi attorno al 1917 con brevi ma ricorrenti sanguinamenti gengivali intorno alla parte superiore destra della bocca e con un gonfiore doloroso del palato. All’inizio Freud non diede particolare importanza a questi sintomi ed aveva “ingenuamente” concluso di aver risolto il problema grazie al fumo di alcuni sigari, a lui donati da una sua paziente. Nel 1923 il sessantaseienne Freud chiese a Maxim Steiner, dermatologo e uno dei primi membri della Società Psicoanalitica di Vienna, di guardare cos’era quel “fastidio” che sentiva in bocca. Steiner diagnosticò una “brutta leucoplachia” e raccomandò a Freud l’escissione di quell’area, oltre all’immediata cessazione dell’abitudine di fumare.

Freud si rivolse allora al suo medico personale, Felix Deutsch, che comunicò la diagnosi di cancro a Freud, che a sua volta rispose: “Se si tratta di un tumore, devo trovare un modo per scomparire da questo mondo con decenza“. Secondo Deutsch, Freud non stava contemplando il suicidio in quel momento, ma solo “desiderava che io gli risparmiassi la sofferenza di una ‘malattia senza speranza’ che era ciò che il cancro significava per lui in quel momento. Voleva insomma avere il diritto all’ eutanasia, o almeno io ho capito questo”.

(continua)