Erdogan e Putin, leader despoti
di - lunedì 05 ottobre 2020 ore 11:09
Erdogan e Putin sono i classici due galli in un pollaio. Due leader arroganti e dispotici. Che prima o poi si troveranno a battibeccare l'uno con l'altro, contendendosi lo spazio vitale oramai entrato in aperta sovrapposizione. Hanno evitato di scontrarsi in Siria, grazie ad un accordo di collaborazione nel segno della pax di Mosca: affari a saldare le relazioni. Si sono tenuti a debita distanza di fuoco in Libia, dove sono schierati su fronti contrapposti, ciascuno con un proprio uomo: il generale Haftar per la Russia, l'architetto al Serraj per la Turchia. Ma nel Caucaso, nella guerra trentennale tra Baku e Yerevan uno dei due player internazionali è effettivamente di troppo.
In questi anni gli eccessi del Sultano sono stati sia interni, con la repressione alla libertà di stampa e l'avvio di un sistema di governo sempre più autocratico, che esterni: le invasioni militari nel Kurdistan siriano alla caccia dei “terroristi” indipendentisti. Mercenari e droni per coprire l'avanzata del governo islamico di Tripoli nel Sahel libico. Le truppe in Qatar. L'appoggio ad Hamas a Gaza. La flotta schierata nell'Egeo in assetto di guerra. Dove rivendica diritto e interessi allo sfruttamento nelle acque di Grecia e Cipro. Pattugliate in via precauzionale dalla marina greca, francese ed italiana. Parte di una larga alleanza geopolitica insieme ad Egitto ed Israele, cuscino alle mire di espansione imperialistica di Ankara nel Mediterraneo. La controversia con Atene è frutto anche di un deliberato calcolo politico di Erdogan. Il sultano di Istanbul, archiviato il golpe, appare oggi debole nei consensi, nel bel mezzo di una doppia crisi: quella finanziaria e quella della pandemia. Non potendo risolvere nessuna delle due guarda fuori dal Bosforo alla ricerca di riconoscimenti e di nuove aree di influenza. Trump gli ha lasciato mano libera nella regione avvisandolo di non esagerare troppo. Biden, in caso di vittoria, potrebbe correggere l'approccio della Casa Bianca.
Erdogan non perde occasione per proclamarsi condottiero dell'islam, arrivando persino a invocare la liberazione dei luoghi santi di Gerusalemme. Lo zar Putin invece è in campagna per legittimare la sua autorità quale difensore della chiesa ortodossa e degli slavi. La vicenda delle ostilità per la contesa della regione del Nagorno-Karabakh tra Azerbaijan e Armenia, tra musulmani e cristiani, è un punto di rottura diplomatico che rischia di incrinare l'amicizia tra Putin ed Erdogan. In un conflitto latente che il Cremlino nel nome della realpolitik ha storicamente fomentato e giostrato con astuzia. Tradizionalmente sostenendo l'Armenia, pur vendendo sotto banco armi ai suoi nemici.
Strategia a senso unico per il leader del partito turco AKP, non può avanzare nel Mediterraneo orientale senza adirare l'Europa e tantomeno può sfondare nei Balcani o nel Caucaso meridionale, dove il protettore di serbi e armeni non è un santo ma Mosca. E ora Ankara deve decidere se restare nel pollaio o tornare sotto l’ala protettiva di Washington.