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Nuvole

di - domenica 31 agosto 2025 ore 07:00

Il mio nonno paterno Gastone, detto Gasto, cameriere e fumatore, aveva un soprannome: lo chiamavano Sor Modesto Tranquillini. Che poi tanto tranquillo sembra non sia nemmeno stato, almeno a detta della moglie. E sua moglie, la nonna Clelia, vulgo Crelia, casalinga, perpetua e ricamatrice, era chiamata in famiglia Sor’Umiliana Oimmei. Modesto Tranquillini e Umiliana Oimmei facevano una bella coppia e stavano con nostro padre e nostra madre. Quando Gastone partì per il fronte, nella prima guerra mondiale, regalò alla Clelia una medaglietta da appendere al collo. Era un portafortuna per entrambi, un simbolo laico; strano per due ferventi cristiani. I ciondoli erano due: due metà di un quadrifoglio e sul retro di ciascuna c’era scritto “divisi, ma sempre uniti”.

Gastone tornò dal fronte vivo, ma con i polmoni malandati, per le sofferenze della vita in trincea e anche per le sigarette. Morì che ero molto piccolo. Ma appena in tempo perché lo ricordassi. La Crelia invece visse a lungo e accompagnò la crescita di tutta la famiglia, sorella e fratelli che vennero dopo.

Anche il nonno materno Umberto, detto Amberto, per i nipoti Berto, aveva fatto la prima guerra mondiale. Bersagliere, fu insignito della Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto. Era contadino e in casa faceva gli ombrelli. A quel tempo pioveva in modo più regolare di ora. Sua moglie, Isabella, la nonna Lisa, era casalinga. Tirava un arrosto di coniglio(lo) che nemmeno alla sagra di Treggiaia… E cucinava le chiocciole con la cotenna del maiale e un sugo che davano assuefazione. Stavano Fordelponte, alle case popolari. I nostri vecchi erano forti. Migliori di noi, quando saremo vecchi. Che vecchi già lo siamo e infatti siamo peggiori.

Tutte le vite passano, scorrono, se ne vanno. Solo le guerre -prima e dopo quella dei nonni Gasto e Berto- sembra non passino mai. Infuriano ancora e noi sappiamo solo ripetere "si vis pacem, para bellum" che c’hanno fatto anche un fucile: il parabello. "Col parabello in spalla caricato a palla, sempre ben armato, paura non ho, quando avrò vinto ritornerò", faceva una vecchia canzone partigiana. E io penso "ubi solitudinem faciunt, pacem appellant" che era Tacito, nel senso dello storico, e “solitudinem” sta per deserto, ma chissà.

“Perché non torni tempo passato, perché non torni tempo perduto?”. Chiesero il poeta e il cantore. Perché, appunto, sono passato e perduto -rispose il tempo- e che ve ne fate voi di me? Non sono stato migliore e tanto da me non imparate nulla. E allora conservate il presente e beccatevi ‘sto futuro. E ‘sti cazzi! E s’intuiva che c’era dell’astio nella sua voce fioca.

"Vanno, vengono, a volte si fermano e quando si fermano sono nere come il corvo". Le nubi. Portate dal maltempo che ci punisce o spinte da venti guerrieri, scure come la pece, coprono la luna, il sole e le altre stelle. Quando sono bianche prendono forme fantastiche e i bambini ci giocano. E a noi resta addosso una voglia di pioggia.

Tutto quello che c’era da sbagliare l’ho sbagliato. Non mi sono fatto mancare nulla. Aveva ragione Mark Twain: i due giorni più importanti della vita sono quello in cui nasci e quello in cui scopri perché. Ma scoprirlo raramente succede e allora, per un attimo, ti senti carico e leggero. Allegro e generoso come un albero da frutto.

Marco Celati

Pontedera, Agosto 2025

L’invocazione di tornare, rivolta al tempo passato e perduto, è da una poesia in dialetto gallurese -sarebbe meglio dire lingua- di Agostino Pes, detto Don Baignu, prete e poeta sardo, amante della vita e mi fermo qui. Fu chiamato “Catullo gallurese”, visse nel settecento e la sua richiesta da allora non ha avuto ancora risposta.

"Le nuvole", poesia di Fabrizio De André

https://youtu.be/q_hded5ZirQ?si=Zycg2ZG4nB1ngAwi


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