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​Dino Campana, tra genio e follia

di - domenica 15 gennaio 2023 ore 08:00

Due parole, prima di introdurre il profilo di Dino Campana.

In questo mio blog “Le pregiate penne”, ho continuato, il viaggio intorno ai narratori toscani che avevo iniziato su fb in una rubrica intitolata “Lo specchio di carta”. Poi, per motivi di copyright, non ho potuto riproporre questi profili di fb sul mio blog, Gli autori trattati ne “Lo specchio di carta” sono stati: Mario Pratesi (L’eredità) Carlo Lorenzini (Collodi)(Pinocchio), Romano Bilenchi, (Il gelo) Luciano Bianciardi (La vita agra) Athos Bigongiali, (Ballata per un estate calda) Antonio Tabucchi, (Piazza d’Italia) Carlo Cassola,(Paura e tristezza) Federico Tozzi, (Ad occhi chiusi) Ugo Riccarelli (Il dolore perfetto).

Quindi, chiunque fosse interessato a leggere questi ritratti può andare sulla mia pagina fb. Nel frattempo continuerò il racconto sui narratori toscani. La mia idea è quella di riunirli tutti in un libro, una volta terminato questo viaggio, che sarà comunque ancora molto lungo.

Ora, qualcuno dirà: “Ma Dino Campana è un poeta! Che c’entra con i narratori?”

Risponderò: “Dino Campana ha scritto i Canti Orfici che sono un prosimetro, un testo cioè che alterna prose e poesie, come “La Vita nova” di Dante. E le prose sono narrazioni, quindi Campana è anche un narratore. Poi, al di là di questo, considero Campana uno degli autori più significativi del ‘900 e non potevo non parlarne in questo mio viaggio tra i narratori toscani.

Dino Campana nasce a Marradi, un paese della provincia di Firenze nel 1885 ed accusa subito, fin dall’adolescenza diversi turbamenti psichici. Frequenta la facoltà di Chimica a Bologna ma, dopo un primo internamento nel manicomio di Imola nel 1906 interrompe gli studi e intraprende una serie di viaggi e vagabondaggi in Italia e in Europa. Nel 1918 è addirittura in Argentina, dove eserciterà vari mestieri, tra cui il gaucho, ma l’anno dopo ritorna a Firenze dove tenterà di riprendere, ma senza successo gli studi universitari. Nel 1913 consegna a Papini e Soffici, direttori della rivista “Lacerba” il manoscritto di un volume di poesie dal titolo “Il più lungo giorno”, ma Soffici lo perde e Campana sarà costretto a riscrivere i testi della raccolta a memoria; ma, anni dopo, quando il manoscritto verrà ritrovato, i critici avranno modo di verificare che nella riscrittura Campana aveva aggiunto e modificato, migliorandole, molte prose e poesie.

Infine, col nuovo titolo di “Canti orfici” pubblica a sue spese l’opera nel 1914 e ne vende le copie per le strade e i caffè di Firenze, strappando platealmente le pagine quando, a suo avviso, non riteneva l’acquirente in grado di capirle.

Allo scoppio della guerra vorrebbe partire come volontario, ma viene riformato. Seguono altri viaggi, alternati ad un nuovo ricovero e a una tumultuosa storia d’amore con la poetessa Sibilla Aleramo, che preannuncia, nella sua drammatica evoluzione, l’ultimo e definitivo internamento nel manicomio di Castel Pulci dove Campana resterà fino alla morte sopraggiunta nel 1932 a soli quarantasette anni.

Esistono due libri che mi preme consigliare a chi voglia approfondire la conoscenza di Campana:

“Vita non romanzata di Dino Campana” dello psichiatra Carlo Pariani che incontrò Campana nel manicomio di Castel Pulci ed ebbe con lui una serie di colloqui tra la fine del 1926 e l’aprile del 1930

“La notte della cometa. Il romanzo di Dino Campana”, romanzo – verità scritto da Sebastiano Vassalli, pubblicato nel 1984 da Einaudi sulla vita di Dino Campana. Il libro segue le vicende di Dino Campana, partendo dalla prima infanzia, sino al ricovero in manicomio e alla morte. Nel libro emergono le incomprensioni con la famiglia, i rapporti contraddittori con lo zio maestro, il clima soffocante della provincia, il controverso rapporto con gli ambienti intellettuali, la relazione con Sibilla Aleramo e le ombre di una personalità tormentata e incompresa.

In questi due libri, seppure in ottiche diverse, si affronta il tema della follia di Campana. Ma era veramente folle?

Sono numerose le prove della follia di Campana; dalle cartelle cliniche emerge la patologia clinica chiamata ebefrenia , conosciuta anche come demenza precoce. Essa presenta svariate bizzarrie comportamentali e stravaganze grottesche, comportamenti deliranti e atteggiamenti nevrotici, stati d’animo confusi, irrequieti e altalenanti.

Poi, c’è da dire che la psichiatria, ai tempi di Campana, faceva spesso ricorso all’elettroshock che non contribuiva certo a migliorare il suo stato mentale. Ma, su una cosa, tutti i critici sono sempre rimasti concordi: Campana scriveva soltanto quando stava bene.

I canti orfici

“I “Canti orfici”, insieme a “I colloqui” di Gozzano (1911), “Il mio Carso” di Slataper (1912), i “Frammenti lirici” di Rebora (1913), “Pianissimo” e “Trucioli” di Sbarbaro (1914 – 1918), “Ragazzo” di Jahier (1919), “Con gli occhi chiusi” di Tozzi (1920) sono espressione della nuova poesia italiana che si afferma nel secondo decennio del Novecento. Ma anche rispetto a queste opere i “Canti orfici” sono un libro eccezionale, che sarebbe rimasto un unicum nella storia della poesia italiana.”[1]

Il maestro di Campana è Nietzsche, che Campana ha letto in lingua originale ( Campana conosceva cinque lingue, tranne il russo), così come in originale aveva letto gli scrittori francesi, inglesi, spagnoli.

Sul motivo nietzschiano del “dionisiaco” si fonda l’orfismo di Campana, la sua concezione della poesia come conoscenza totale e capacità di entrare in sintonia col cosmo, al di là del tempo e dello spazio. Il suo maestro riconosciuto di poesia è Verlaine, ma ama alla stessa maniera Rimbaud, Baudelaire, Laforgue, Poe e soprattutto Withman le cui “Foglie d’erba” Campana si portava sempre appresso. Ma presenti, specialmente nelle descrizioni dei paesaggi anche influenze di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, oltreché l’amore per i grandi maestri del Rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo.

I “Canti orfici” uscirono proprio quando nell’aprile 1914 scoppiava la grande guerra. In tale circostanza suscitò molto scalpore il sottotitolo del libro Die tragödie des letzen Germanen in Italien (la Tragedia dell’ultimo dei Germani in Italia) e ancor più la dedica “A Guglielmo II imperatore dei Germani”. A Soffici Campana confidò che la dedica era stata la reazione a tutti quegli idioti di Marradi che parlavano del “Kaiser assassino”. Ma, come nota Benevento: “ La ragione era più profonda e risaliva alla sostanza “germanica” della sua poetica, che era fondata sul pensiero di Nietzsche. Se l’autore de “La nascita della tragedia” aveva indicato nel “dionisiaco” e nell’ “apollineo” gli stati originali della poesia, Campana a sua volta canta la notte “barbara”, “mistica”, “mitica”, “primordiale”, e insieme vagheggia la “notturna estate mediterranea” e la luminosità della “notte tirrena”.[2]

I Canti orfici si aprono con La Notte che è suddivisa in tre parti – La Notte, Il viaggio e il ritorno, Fine – e in venti sezioni.

La Notte è il capolavoro della poesia di Campana con il suo corollario di versi costituito dai Notturni, una serie di sette poesie – La Chimera, Giardino notturno, La Speranza, L’invetriata, Il canto della tenebra, La sera di fiera, La petite promenade du poete – che, anche se richiamano i motivi di poeti contemporanei come Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, confermano l’originalità della poesia di Campana.

L’invetriata introduce il tema di Marradi, il paese natio sul quale scendono le ombre mentre si accende la lampada della Madonnina del ponte.

“La sera fumosa d’estate/dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra/ e mi lascia nel cuore un suggello ardente./ Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una/lampada) chi ha/A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso/ la lampada? – c’è nella stanza un odor di putredine. C’é/ nella stanza una piaga rossa languente/ Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste/ di velluto/ E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’é/ nel cuore della sera c’è,/ sempre una piaga rossa languente.

Il canto della tenebra affronta i temi dell’amore, della morte e della notte: “ La luce del crepuscolo si attenua/ Inquieti spiriti sia dolce la tenebra / Al cuore che non ama più.”

Ne “La sera di fiera” appaiono diversi motivi, la donna morta, la notte di fiera della perfida Babele dove immagini oniriche e magiche si sovrappongono a descrizioni crude e realistiche.

Ma la più interessante è l’ultima poesia del gruppo La petite promenade du poete , una passeggiata del poeta per le strade oscure della città, dove Campana ha eliminato le scene postribolari (il casino e le puttane) che aveva descritto in Prosa fetida, un’altra sua composizione che, però, non fa parte dei Canti.

Me ne vado per le strade

Strette oscure e misteriose

Vedo dietro le vetrate

Affacciarsi Gemme e Rose

Dalle scale misteriose

C’è chi scende brancolando

Dietro i vetri rilucenti

Stan le ciane[3] commentando.

In Prosa fetida

Dove dietro le vetrate

Se ne stanno Gemme e Rose

(…)

Gemma e Rosa i fiori in testa

Se lo accolsero ridendo

E Matilde che alla lesta

Su da un piatto sta inghiottendo

Sollevò la bocca tinta

E gli disse in un sorriso:

Mangio ancora un po’ d’aringa

Ed ho subito finito.

Il protagonista di “Prosa fetida” è Giovan Pietro Malalana che, nel giorno della befana “volle bere come un porco e abbrutirsi con le ciane”. Come si può capire da questi estratti il tono postribolare di prosa fetida non compare ne “La petite promenade”.

Dopo “I Notturni” inizia il secondo grande poema in prosa “La Verna”, il diario di un viaggio al luogo francescano durante il quale i compagni di viaggio immaginari saranno i grandi artisti del passato, Andrea del Castagno, Andrea della Robbia e Dante, il poeta che cantò Francesca il cui grido si perde “sulle rive della guerreggiata pianura di Romagna”.

Più che un pellegrinaggio Campana compie un viaggio alla ricerca di una natura primitiva e barbarica e insieme della “poesia toscana che fu”

La poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di voci tranquille vigilate dal castello antico, le signore ai balconi poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’ora di grazia della giornata di riposo e di oblio”

Dopo “La Verna” troviamo Fantasia, su un quadro di Ardengo Soffici e Firenze che occupa un posto centrale nella poetica di Campana, anche perché luogo d’amore tra lui e Sibilla Aleramo; il più illustre paesaggio, così definirà Firenze.

Si prosegue poi con Batte Botte ambientata a Genova che rappresenta un porto notturno, sulle cui rive echeggia il passo solitario del poeta; è una poesia con una forte caratterizzazione onomatopeica, fondata su motivi musicali:

Per le rotte

De la notte

Il mio passo

Batte botte

Dopo questa poesia troviamo una serie di brani in prosa (Firenze, Faenza, Dualismo (…) che costituiscono le impressioni di città; in particolare Firenze che Campana definirà “il più illustre paesaggio” anche perché luogo simbolo dell’amore tra lui e Sibilla Aleramo.

Poi di nuovo una poesia Barche ammarate

le vele le vele le vele

che schioccano e frustano al vento

che gonfia di vane sequele

le vele le vele le vele!

Che tesson e tesson: lamento

Volubil che l’onda che ammorza

Ne l’onda volubile smorza …

Ne l’ultimo schianto crudele …

Le vele le vele le vele

Nota Fiorenza Ceragioli: “ poesia che si presta ad una lettura polisemica: le barche ormeggiate rappresentano la condizione umana legata al proprio destino; gli uomini (le vele) sospinti e incalzati dalla vita (il vento) oppressi da una serie di inutili problemi (vane sequele) sono condannati al dolore di vivere sempre vario e sempre uguale, che il tempo spezza con la morte” [4]

I Canti orfici si chiudono con Genova , il poemetto più lungo di Campana.

“Nelle sette strofe è delineato un paesaggio suggestivo e un esaltante tragitto dell’anima. Nella mattina di maggio una “nube” appare sul mare e i bianchi palazzi di Genova sono come “i bianchi sogni dei mattini” (…) Attraverso l’uso di ripetizioni e riprese, l’innesto di elementi cromatici e musicali nel tessuto verbale, la disgregazione della sintassi e della metrica tradizionale (…) il canto della vita si risolve alla fine in un canto di morte. Ma la morte, che nei versi si configura come “oblio” e dissolvimento nell’infinito e nel nulla, acquista un più doloroso risvolto personale nella linea nera che chiude i versi e nel colophon che li sigilla:

They were alla torn

And cover’d with

The boy’s

Blood [5]

L’utilizzazione delle parole di Walt Whitman, con quella macchia di sangue gettata sull’ultima pagina dei Canti Orfici, è un preciso richiamo alla “tragedia” personale dell’autore, che sta alle radici della sua poesia “orfica”[6]

Vorrei concludere questo viaggio su Campana, con un ritratto che di lui fece Emilio Cecchi: “ Non so di che specie egli (Dino Campana) fosse: se superiore o inferiore alla comune nostra; certo è ch’era di altra specie. Un fauno insaccato in quei miseri panni di fustagno, o un altro essere così, tra divino e ferino, non avrebbe fatto diversa impressione. Genio poetico egli ebbe forse più d’ogni altro della nostra generazione, se avesse potuto maturarlo e svilupparlo a fondo (…) L’atto del poetare proveniva in lui da un incanto di realtà schiettissimo. C’era un contrassegno direi fatale e carnale, suggello autentico della sua genialità.”[7]

Campana è stato, a mio avviso, il più importante poeta lirico del quindicennio precedente la guerra mondiale. Poeta eterodosso ed isolato, come lo definì Asor Rosa, ha raccolto e sviluppato la lezione simbolista di Rimbaud. “, Il suo linguaggio denso e spesso oscuro , la sua fondamentale concezione analogica della poesia, il suo rapporto col mondo inteso e realizzato come illuminazione, son fatti estremamente nuovi ed interessanti, di cui si può soltanto lamentare che abbiano avuto una storia troppo breve (…)”[8]


[1] Aurelio Benevento, “Primo Novecento”, Loffredo, Napoli, 1990, pg. 27

[2] A. Benevento, op.cit. pg. 30

[3] Ciane: prostitute

[4] Fiorenza Ceragioli, in Dino Campana, Canti Orfici, Vallecchi, pg. 236

[5] Voi vi siete macchiati del mio sangue innocente

[6] Aurelio Benevento in op, vit. Pp. 60,61

[7] Emilio Cecchi, in “L’Approdo”, gennaio – marzo 1952

[8] A.A.Rosa, in Sintesi di storia della letteratura italiana, La nuova Italia, pg 410