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Bestiario

di - giovedì 10 agosto 2023 ore 17:01

I cani sono inquieti stasera: si aggirano per il giardino, abbaiano a tutti, uomini e altre bestie. Anche rivolti alla luna, silenziosa e pallida, nemmeno fossero Leopardi o uomini lupo. Dice, sono cani, abbaiano, se erano tenori cantavano l’opera. Bello, un cane che intonasse, greve: Nessun dorma! L’effetto sarebbe stupefacente e tale da metterci in guardia, senza ringhi o guaiti di sorta. Noi diciamo, “non disturbare il can che dorme” e un comportamento di reciprocità da parte del “migliore amico dell’uomo” sarebbe anche auspicabile. Ma le bestie obbediscono all’istinto. Cani che abbaiano e se abbaiano pare che almeno non mordano e speriamo sia vero. Tafani che pungono. I tafani sono mosche primitive. Dotati di apparati rudimentali, non raffinati dall’evoluzione della specie, più che pungere, lacerano e poi, essendo ematofagi come Dracula, succhiano il sangue. Lo fanno avidamente da un animale o da un individuo all’altro e possono essere vettori di malattie trasmissibili. Ma non è propriamente il tafano a succhiare il sangue. Il maschio, anzi, ciuccia i nettari spensierato, è la femmina riproduttrice che lo fa: “la tafana”. E pare che questa divisione dei compiti valga anche per la zanzara e “lo zanzaro”.

La natura è più avanti di noi umani nella più equa attribuzione di poteri nella distribuzione dei generi. Le mantidi religiose, ad esempio, una volta accoppiatesi, uccidono il maschio, lo divorano proprio, partendo dalla testa, mentre gli organi genitali proseguono nell’accoppiamento. Cannibalismo post-nuziale e sadomaso. Sembra che preghino a mani giunte, le santarelline, ma, non fidatevi, sono solo apparenze. E la mantide non è la sola a mettere in atto una tale determinazione: l’ape regina, nutrita dalle operaie, dopo il volo nuziale si accoppia con più fuchi maschi che muoiono dopo l’accoppiamento perché i loro organi genitali si strappano. Come si dice fra i fuchi: chi sull’ape regina muore, vissuto è assai! Se poi la regina per qualche motivo non riesce ad accoppiarsi deporrà uova non fecondate da cui nasceranno solo fuchi e in questo caso si chiamerà “regina fucaiola”. Che “fucaiola” non è bello a dirsi -specialmente nel fiorentino- e, in effetti, in questo caso, l’alveare sarà naturalmente destinato all’estinzione. Anche nella famiglia delle formiche, dopo l’accoppiamento con la regina, i maschi muoiono, la regina invece perde le ali, ma non il vizio, e depone le uova per la formazione della colonia dove governerà a vita. La monarchia è così, anche da noi.

E pure noi umani, la specie più evoluta, obbediamo all’istinto che istiga all’amore nonché al disamore e, quando va bene, alla ragione che li governa. Quando invece non va bene -e succede spesso- mostriamo al mondo quanto siamo potenti nel male. In questo caso più il genere maschile, recessivo e crudele, tra i due attributi essendoci una relazione di causa effetto. Poi tutti insieme, i più ricchi in specie, dispieghiamo sulla natura -per quanto matrigna, se intesa come esistenza- il nostro potere. Così la natura -intesa invece come Terra- ci mostra il suo, di potere, e allora forse capiamo, a parte qualche idiota negazionista, che è l’ora di darci un taglio, di ridimensionarci e cambiare.

Avrete notato come nel bestiario o, meglio, nelle mie bestialità, faccio un po’ di confusione di genere. Sono seguace delle teorie linguistiche della Prof. Robustelli, illustre concittadina: i generi vanno coniugati senza la sudditanza data solo dal predominio della consuetudine maschile. “Sindaco” diventa anche “sindaca” perché sempre più donne, diversamente dal passato, coprono questo ruolo. E così “ministra”, eccetera. Su “assessora” ho però qualche obiezione, perché la parola “assessore” ha la “e” finale che si presta abbastanza bene per i diversi generi. Con l’articolo determinativo magari non ce la caviamo: “l’assessore” può essere uomo o donna. Ma è un problema? Invece l’indeterminativo per il femminile va apostrofato e scrivendo “un’assessore”, si capisce subito che è femmina.

Anche con gli animali faccio un po’ di confusione. Ma “la tigre” resta “tigre” e non solo per la “e” finale: non diventa “tigra” o “tigro”. E dire tigre femmina o maschio è preciso, ma prolisso. E palloso, che si può dire, come “petaloso”. Tempo fa c’era chi invitava a mettere “un tigre” nel motore. Ma era una pubblicità e la pubblicità sarebbe meglio non facesse testo, come invece spesso e volentieri fa. E comunque “leone” fa “leonessa” ed “elefante”, “elefantessa” e dunque le nostre certezze sfumano. Ho usato “tafana” così come si usa dire “fagiana”, ma va bene? E come ce la caviamo con “mosca”: “la mosca” e “il mosco”? Oppure “la mosca” e “il mosca”? Stesso dicasi per “la pantera” e, all’inverso, per “il puma”. E io, che smaltisco le smanie della villeggiatura, come di consueto, in Lunigiana, non so se il fiume che risalgo sia più corretto chiamarlo “il Magra” o “la Magra”. Le due vulgate sussistono.

Perché l’italiano è dato dalle sue origini, dalle sue regole e da noi che, bene o male, lo parliamo, la società, e la società cambia, perciò non è una lingua morta. Tuttavia, alle prese con le varie identità di genere, sembra vacillare. Tanto che, per sfuggire alla stereotipata definizione binaria, maschile o femminile, rifiutando il maschile sovra esteso, per includere qualsiasi genere, si cercano nuove soluzioni. Una di queste potrebbe essere l’introduzione di un neutro, dato dalla finale "u", che a me francamente pare brutto. O anche apporre un asterisco al posto della lettera finale. La comunità Lgbtqia+, che sembra una di quelle parole finlandesi, impronunciabili, piene di consonanti, “consonantose”, suggerisce di scrivere, al posto di "tutte" e "tutti", “tutt*”. Oppure introdurre l’uso dello “schwa” o “scevà”, una “e” rovesciata finale: “ə”. Che poi non so come sarà nel parlato. Credo che, semplicemente, entrambe queste vocali indistinte non si pronuncino affatto. Come pronunciare una consonante col solo suono: “b”, ad esempio, senza dire “bi”, appoggiandosi sulla “i”. Comunque sia, la lingua italiana, parlata e scritta, anche da noi somari -che però sono gli asini che portano la soma e sono bestie intelligenti- non solo non è morta, ma è viva e lotta con noi: troverà la sua strada in forma, suoni e contenuti.

Sono venuti a trovarci figli e i nipotini in villeggiatura. I nipotini li abbiamo portati alle cascate delle dighe di Mignegno, sul Magra o sulla Magra che dir si voglia. Una volta guadato, si risale il corso del fiume e si arriva ad una specie di paradiso terrestre ad uso dei lunigianesi e dei fortunati turisti o villeggianti come noi. L’acqua è limpida e freschissima. Fredda, diciamo. Ma una volta dentro, ti senti tonificare, guardi gli alberi che cingono lo slargo del fiume e sei immerso nella bellezza della natura. Non stupirebbe l’apparizione di un elfo dei boschi o di una ninfa fluviale e, lassù in alto, che ci osservi qualche infastidita divinità. I bimbi sono stati bravi e coraggiosi, hanno superato il percorso accidentato e sono venuti fino alle cascate, senza piangere. Senza piangere troppo. “Non abbiamo paura di niente!”. Paura bisogna averne, ma ai nipotini il fiume che scorre tra i sassi lisci fa questo effetto, più confidente del mare e volevano, anzi, “fare un giretto tra le correnti”. Il nonno, ovviamente, è cascato. Così dovrebbe essere ovunque: la natura e il futuro per i nuovi nati.

Mi arrivano messaggi dalla chat. A tutti vorrei rispondere e a nessuno. Non sta più a me. Dopotutto -o dopo niente- sono in pensione, in vacanza, anche se non certo dalla vita o dalla società. A Pontremoli negli "Incontri nel salotto d’Europa" -ottima iniziativa- ho sentito, in piazza, De Magistris: in mezzo a belle frasi e a cose giuste, servite magari in salsa populista e giustizialista, ha parlato malissimo del Presidente Napolitano, strappando applausi ad una folla che, in gran parte, ha votato Berlusconi. E mi ha dato fastidio. Tengo dalla mia, a sinistra e centrosinistra. Non sono affatto insensibile o indifferente alle sorti del mondo, né sarò io a negare l’importanza "gaberiana" della partecipazione connessa alla libertà, che non è star sopra un albero, neanche il volo di un moscone -o una “moscona”- né solo uno spazio libero: la libertà di non esserci. Sto solo cercando di guarire da un morbo gravissimo, contratto in gioventù: il protagonismo. E più che guarigione si tratta di redenzione. Ma devo curarmi. Ci sarà un modo di farlo con dignità, distinzione e riservatezza? Non lo so. I cani sono inquieti questa notte. Buonanotte.

Marco Celati

Pontremoli, Agosto 2023

P.S. Più che bestiario, si tratta di bestialità da parte mia. E quei cani sono inquieti, ma i più buoni del mondo. Non so se per molti di noi, altrettanto inquieti, scrivente compreso, si può dire lo stesso. Mi scuso con chi si intende davvero di animali, di uomini e della lingua italiana. A proposito di animali, una volta parlai, non ricordo più per quale testo, delle tartarughe marine scrivendo “Carretta carretta”, anziché “Caretta caretta”, con una sola “r”, come va scritto. Per fortuna un’amica biologa, mossa a compassione, mi corresse evitandomi più brutte figure. Quantunque, strafalcione a parte, “Carretta carretta” faceva simpatia. Chissà che nome avrebbero scelto queste simpatiche creature, se potessero parlare con noi e noi con loro. Una cosa ce la dicono: che devono essere protette, difese, che bisogna fare in modo che tornino a popolare i nostri mari. Tra le altre cose sono antagoniste delle meduse che, purtroppo, per la tropicalizzazione del clima e del mare, lo “infestano”. Se le pappano, come i popoli dell’Asia orientale, cinesi compresi, che pure sono tanti, ma si vede non bastano. Le meduse sono tante, quante le stelle del cielo o le buste di plastica del mondo, sono la seconda delle tre cause della rinuncia alle lunghe nuotate in mare: ce ne sono troppe e ho paura di ustionarmi, come mio fratello alla Capraia. La terza causa sono i natanti: troppi anch’essi, specialmente a motore, gli uomini non hanno antagonisti, se non sé stessi. Qual è la prima causa? Gli anni: più che troppi, ma è un dettaglio da niente, ancora protagonismo. L’ho scritto sopra, a chi si deve pensare.


Giorgio Gaber - La libertà