Pensieri incoerenti
di - giovedì 07 luglio 2022 ore 10:00
A volte bisognerebbe guardare le cose come se non si fossero mai viste e fossimo turisti che visitano posti nuovi, paesi stranieri e ignoti. Conosciamo campi, alberi, fiori, ma non quei campi, quegli alberi, quei fiori. Non il paesaggio che si apre davanti a noi, se solo immaginiamo di vederlo per la prima volta, senza conoscerne storia o problemi, senza l’assuefazione della consuetudine che annulla lo stupore, appiattisce la meraviglia.
Allora anche la vecchia fabbrica diroccata, invasa dalle piante che si riappropriano dello spazio, dai rampicanti che assalgono le mura, mentre la ciminiera ancora svetta a rivendicarne la memoria, ci sembra suggestiva. E la vista non suggerisce il senso dell’incuria, della trascuratezza e del declino a cui gli anni ci hanno assuefatti. A cui siamo abituati. Non ci trasmette fastidio, né ci coglie la desolazione dell’abbandono verso cui vanno incontro le cose. Anzi l’immagine che ci appare di quelle sventrate architetture, delle coperture divelte, delle travi di legno ingrigito e ferri rugginosi, è struggente e imponente. Selvaggia, lungo la strada, in riva al fossato coperto dalle canne. Un manufatto sconfitto che resiste al ritorno della natura, nell’assordante frinire delle cicale di un assolato pomeriggio.
Che sia un lago di cava intorno a cui camminare o uno slargo del fiume dentro cui immergersi, non dovremmo considerare questi luoghi banali, comuni, ma percepirli come un miracolo, una meraviglia da cui essere sorpresi, di cui essere grati.
E, similmente, per la vita sopraffatta da eventi o negligenze, ritrovare un po’ di pace, una tregua, una stupefatta serenità. Ma così non è: tutto volge e si svolge e nulla si dipana. Si fa fatica a riscoprire il senso delle cose, l’entusiasmo del mondo impossibile, lo stato di natura. La natura violata. E tutto il tempo trascorso e nessun tempo. Ed ogni giorno questo mal di vita.
“Non chi comincia, ma quel che persevera”. È il motto inciso a bordo della nave scuola Amerigo Vespucci. Ma non era: “cominciare è umano, perseverare è diabolico”? Ah, no, quello era “errare”. E cominciare qualcosa non vuol dire sbagliare. Almeno non necessariamente, che significa non sempre, ma spesso.
Perché “bisogna salire il morale e uscire il carattere”, come dice mia nuora, che è solarmente del Sud e ha ragione lei. La trovo una bella espressione, un bel modo di parlare che si affermerà. Anche perché il parlato evolve sullo scritto, non c’è niente da fare. Per questo gli studenti rivendicano solo la prova orale. Si scrive veloci e si fa più fatica a dire “far crescere il morale” o “far sì che venga fuori il carattere”. Ed è una fatica inutile che potremmo pure risparmiarci, tutto sommato. Basta intendersi. E invece no, oltretutto il morale resta basso e il carattere non emerge. Così la malinconia, che è un indole rispettabile, lambisce la depressione, che è una malattia temibile.
D’altra parte come parliamo, siamo. E perfino come mangiamo. Il linguaggio e la cucina ci determinano. Noi centristi non abbiamo la precisione efficientista e nordista dei mezzitoni strozzati, ma perentori, tipo “cassœula” o “bagna càuda”. E nemmeno la solarità sfaccendata, meriggiante e cantelinante del mezzogiorno d’Italia della “pizza, ‘a pizza e niente cchiù”. Noi toscani, al centro d’Italia, abbiamo le vocali aperte, boccaccesche e la “c” strascicata, come il cavolo a merenda, che non c’entra mai niente. Luoghi comuni, scontati, lo so, lo so. Allora sentite cosa risponde Alexa se le chiedete: “sai parlare il corsivo?”. Aproposito di parole strascicate e di evoluzione del linguaggio.
In effetti, a volte si dice l’importanza della lingua… Provate ancora a chiedere, sempre ad Alexa, ma anche a Google: come si dice, in tedesco, “un gatto nel carbone?”. Con tutto il rispetto per il romanticismo tedesco, per noi, in lingua del sì o in lingua d’oca, sono parole innocenti. Invece per i teutonici, pronunciate da loro, sembrano parole scurrili. Ed effettivamente, a non saperla tutta, uno ti dice così e sembra brutto, quando invece si tratta di un povero gattino smarrito in mezzo al carbone. Capace pure nero.
Perdonate il citazionismo, ma è proprio vero: “la vita è la palingenetica obliterazione dell’io trascendentale che s’infutura nell’archetipo prototipo dell’autocoscienza cosmica”. Non si sa se qualcuno l’ha detto e chi. Freud? Hegel? Il Conte Mascetti? Oppure il Gastone di Petrolini quando, monologando, si chiedeva “se l’ipotiposi del sentimento personale, postergando i prolegomeni della sub-coscienza, fosse capace di reintegrare il proprio subiettivismo alla genesi delle concomitanze”. Forse “la vita reale è per chi non sa fare di meglio”. E questo Woody Allen lo fa dire da Selena Gomez a Timothée Chalamet in “Un giorno di pioggia a New York”, che invoco in questa afosa, terribile siccità. Ma allora la vita è azione, citazione o eccitazione? Io, francamente, non saprei.
Pontedera, Luglio 2022
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