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Attualità sabato 03 aprile 2021 ore 18:55

Tutte le sere alla finestra dell'ospedale a fare il tifo per il padre

La famiglia a pochi metri dal padre ricoverato
La famiglia a pochi metri dal padre ricoverato

Storie di Covid, da quasi 40 giorni Alessandro è ricoverato all'ospedale San Donato e la famiglia ogni sera appare dietro al vetro



AREZZO — Uno degli aspetti più duri per i malati di Covid-19 è la solitudine che provano nei reparti, isolati dal mondo e costretti a vedere persone dentro a tute bianche, per lo più irriconoscibili.

Ma ci sono delle eccezioni, come quella di Alessandro, uomo di 53 anni, ricoverato da 40 giorni all'ospedale San Donato di Arezzo. Moglie e figli di Alessandro tutte le sere, da oltre un mese, si riuniscono davanti ad una vetrata del San Donato per dare forza e speranza al capofamiglia. L'uomo è ricoverato in terapia intensiva.

"Appena babbo esce dall'ospedale, mi sposo - ha raccontato la figlia Alessandra, 24 anni, appoggiata alla staccionata di legno - Deve essere lui ad accompagnarmi all'altare". Sono le nove di sera, Alessandra è con il compagno Matteo, la sorella Sara Francesca e la mamma Orlinda. Un metro e c'è un piccolo avvallamento. Tre metri ed ecco una grande vetrata. E' quella della terapia intensiva Covid dell'ospedale di Arezzo. Dietro a quel vetro s'intravede un letto dove da quasi 40 giorni c'è un uomo di 53 anni, Alessandro. E' il pezzo della famiglia che manca, quello che il Covid ha strappato da casa e confinato in isolamento. Ma non in solitudine.

"La sera ceniamo alla svelta - ha spiegato Orlinda - Poi veniamo qui. Tutte le sere. Arriviamo verso le nove e poco prima delle dieci andiamo via. Abitiamo vicini all'ospedale ma rispettiamo sempre il coprifuoco".

"Parliamo con il babbo anche se lui non ci può sentire - ha detto Sara Francesca, 20 anni - Io gli racconto cosa ho fatto e cosa succede. Ieri gli ho detto che ha riaperto il nostro gelataio".

Ancora Alessandra: "Quando andiamo via gli diamo la buona notte e io gli dico sempre di non fare scherzi. La notte è il momento più difficile. E' lunga e interminabile: quando è giorno ringrazio il cielo perché il telefono non ha squillato e nessuno, dall'ospedale, ci ha chiamato".

E' una famiglia che non riesce propria a stare divisa: sul monitor accanto al letto c'è la foto che la ritrae unita. Alessandro lavora da 31 anni in una ditta di impianti telefonici: è stato il primo assunto. Si era dedicato prima al tiro con l'arco per passare poi allo speed down, una disciplina che si basa sulla corsa in discesa di mezzi privi di motore. "Era diventata la sua nuova passione grazie a me - ha detto Sara Francesca - L'ho praticata per qualche tempo".

Alessandro era quindi diventato presidente nazionale della Federazione anche per seguire la figlia più piccola impegnata nelle gare. Un uomo attivo dalla mattina alla sera, mai fermo. Ogni giorno gli amici mandano messaggi alla famiglia e uno, quotidianamente, lo inviano al suo cellulare pur sapendo che è spento. Attivo fino a quando non è arrivato un primo segnale: problema ai reni nel 2020 e dialisi tre volte alla settimana. Ma nemmeno questo lo aveva fermato. Prima di una seduta, però, ecco il tampone positivo. Era il 23 febbraio. Prima in degenza Covid e poi in terapia intensiva. Un distacco forzato che la famiglia non accetta.

Alessandra: "Una sera telefonai in reparto e chiesi notizie. Non solo mi raccontarono le condizioni del babbo ma aggiunsero che avrei potuto parlare con la psicologa per poter poi entrare in reparto. In quei giorni sia la mamma che Sara Francesca erano ancora positive a casa e quindi ci andai io".

Impatto non facile: "Quando la fecero entrare - ha ricordato Matteo - lui era stato appena estubato. Aveva fame d'aria e soffriva. Ma era fedele al suo motto: barcollo ma non mollo".

L'orologio corre e la notte è sempre più scura. Da una porta escono alcuni operatori che hanno finito il turno. Si salutano, sono ormai amici: "Sono persone meravigliose. Ci hanno accolto e ci sostengono sempre perché anche per noi non tutti i giorni sono eguali".

Le dieci si avvicinano. E' l'ora di salutare il babbo e di tornare a casa. Orlinda, Alessandra, Sara Francesca e Matteo si avviano verso casa. Con le parole e la speranza di Paolo Coelho: l’ora più buia è quella che precede il sorgere del sole.

Le visite dei parenti in terapia intensiva: un modello che funziona

Il primo ingresso di parenti in terapia intensiva Covid risale al 23 dicembre dello scorso anno. Mediamente ce ne sono 5 ogni giorno ai quali se ne aggiungono 2 per i pazienti non Covid. Alcuni numeri aiutano a capire come questo modello organizzativo funzioni: 400 ingressi, 781 contatti telefonici strutturati e organizzati con la psicologa, 2.000 contatti telefonici per notizie e video chiamate dai sanitari del reparto ai congiunti.


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