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mercoledì 06 novembre 2024

CI VUOLE UN FISICO — il Blog di Michele Campisi

Michele Campisi

MICHELE CAMPISI - Laureato in fisica teorica a Pisa, ha ottenuto il titolo di Dottore di Ricerca negli Stati Uniti, ed ha lavorato per anni come ricercatore in Germania. E’ stato Marie Curie Fellow presso la Scuola Normale Superiore di Pisa dove ha svolto attività di ricerca nel campo della fisica quantistica, grazie al Progetto ``NeQuFluX'' finanziato dalla Comunità Europea. Attualmente è ricercatore presso L’Università di Firenze.

Come fotografare un buco nero

di Michele Campisi - lunedì 15 aprile 2019 ore 07:00

Semplice: prendi una macchina fotografica, la punti verso l’oggetto da fotografare, scatti, sviluppi.

L’avete vista tutti la “foto del secolo”, la prima fotografia mai realizzata che ritrae un buco nero, il frutto del lavoro dei circa 200 ricercatori di EHT (acronimo di Event Horizon Telescope), un progetto di ricerca internazionale che vede l’Unione Europea come capo fila.

L’immagine presentata lo scorso 10 Aprile, in sei conferenze stampa simultanee sparse per il globo, presenta la fotografia di buco nero, o meglio di ciò che lo circonda (plasma e radiazione elettromagnetica), e quindi del suo bordo esterno, il cosiddetto orizzonte degli eventi, mai osservato prima.

Ma si tratta davvero di una fotografia? In fondo l’immagine è il frutto di una elaborazione fatta da alcuni tra i più potenti calcolatori al mondo di una mole impressionante di dati contenenti l’informazione sul segnale radio proveniente dalla regione di cosmo osservata e raccolto contemporaneamente da una rete di radio-telescopi sparsi per il globo. Nessuno sarebbe in grado di vedere con i propri occhi niente di simile all’immagine svelata lo scorso 10 aprile. Questo ha portato molti a mettere in dubbio il valore del lavoro svolto, bollandolo come “fuffa mediatica” (si veda a questo proposito anche questo articolo apparso su Repubblica).

Si tratta evidentemente di detrattori che non hanno cognizione di causa. Partiamo dalla parola fotografia, che significa letteralmente “scrittura di/con la luce”. Il segnale ricevuto dai telescopi è un segnale radio, cioè radiazione elettromagnetica, cioè luce. Luce la cui frequenza cade al di fuori della stretta finestra del visibile all’occhio umano, ma pur sempre luce. Quindi il pennello che ha scritto i dati raccolti dai telescopi e poi elaborati, è effettivamente un pennello di luce, tanto quanto lo è quello che scrive i dati raccolti dalla fotocamera del nostro smartphone. Questi dati, esattamente come succede nella macchina fotografica dello smartphone, sono stati elaborati tramite un software, per poter essere visualizzati sotto forma di immagine visibile e comprensibile dall’occhio umano.

Insomma, non c’è niente di fondamentalmente diverso dalle fotografia digitali che facciamo quotidianamente. La differenza non sta nella sostanza, ma solo nelle dimensioni della macchina fotografica e dell’oggetto fotografato. Quello che per la fotocamera dello smartphone è il sensore CCD che sta dietro la lente, nel progetto EHT è un enorme sensore, della dimensione della terra stessa i cui pixel sono i singoli telescopi. Se il sensore della nostra fotocamera digitale rileva fotoni nel visibile, il sensore di EHT li raccoglie nella banda delle radio frequenze, ma sempre fotoni sono. Se i dati raccolti quando facciamo una foto con lo smartphone ammontano a pochi Mega-byte quelli raccolti da EHT sono dell’ordine del Peta-byte (mille milioni di mega-byte). Mentre i dati raccolti dalla fotocamera dello smartphone vengono elaborati localmente ed in pochi microsecondi, quelli di EHT sono stati registrati su dischi rigidi (per un volume pari a 6 metri cubi), trasportati (via aerea!) in un centro di super-calcolo ed elaborati nel corso di due anni!

Se nessuno mette in dubbio la fedeltà dell’immagine prodotta dal proprio telefono cellulare è perché è direttamente confrontabile con l’esperienza dei nostri sensi umani, cosa che non è possibile fare con l’immagine di EHT. Per questa ragione i dati sono stati elaborati prima separatamente da vari gruppi interni a EHT e poi confrontati gli uni con gli altri, e sono poi stati resi pubblici perché chiunque possa accedervi ed elaborarli, e potersi quindi esprimere sulla loro fedeltà.

Insomma, la ricerca scientifica, che sia rivolta all’osservazione dell’infinitamente piccolo o dell ’infinitamente grande, serve ad espandere i nostri sensi e farci vedere o sentire, e quindi comprendere, ciò di cui altrimenti non avremmo esperienza diretta (ricordate il suono dei due buchi neri che spiraleggiano uno intorno all’altro per poi fondersi, ascoltato dalla collaborazione Ligo/Virgo?, si veda il post dal titolo “Le Onde Gravitazionali Esistono Davvero !"

E per fortuna, altrimenti, se dovessimo affidarci ai soli nostri limitatissimi sensi, penseremmo ancora che la terra sia piatta.

Michele Campisi

Articoli dal Blog “Ci vuole un fisico” di Michele Campisi