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LE PREGIATE PENNE — il Blog di Pierantonio Pardi

Pierantonio Pardi

Pierantonio Pardi ha insegnato letteratura italiana all’ITAS “ Santoni” di Pisa fino alla pensione. Il suo esordio narrativo è stato nel 1975 con il romanzo "Testimone il vino" , ristampato nel 2023 sempre dalla Felici Editore, nel 1983 esce "Bailamme" (ristampato nel 2022 con Porto Seguro editore). Negli anni seguenti ha pubblicato come coautore “Le vie del meraviglioso” (Loescher,1966), “Il filo d’Arianna (ETS, 1999) e da solo “Cicli e tricicli” (ETS 2002), “Graaande …prof (ETS, 2005) e “Il baffo e la bestia” (ETS 2021), "Erotiche alchimie" (ETS,2024) e "La disgrazia di chiamarsi Lulù" (Felici Editore, 2024). Ha curato l’antologia “Cento di questi sogni” (MdS, 2016) ed è direttore editoriale della collana di narrativa “Incipit” (ETS)

​Uomini che ignorano e spesso odiano le donne

di Pierantonio Pardi - martedì 07 novembre 2023 ore 08:00

Due storie che vedono come protagoniste due donne energiche e determinate che devono imporsi in un mondo di uomini dominato da pregiudizi e ostilità. La prima è un’ingegnera che lavora al nord, la seconda un’ analfabeta del profondo sud.

La prima, Caterina, è la protagonista di “Nina sull’argine” il romanzo di Veronica Galletta, la seconda, Alide è la protagonista di “D’anima e terra” di Esther Diana.

Veronica Galletta

Nina sull’argine

Il nuovo libro di Veronica Galletta “Nina sull’argine” incluso fra i sette finalisti del premio Strega 2022 si inserisce a tutti gli effetti nell’ampia tradizione di letteratura sul lavoro, declinata, in questo caso in modo del tutto personale.

Caterina è un’ ingegnera al suo primo incarico importante: la costruzione dell’argine di Spina, piccolo insediamento dell’alta pianura padana. Ed ecco come l’autrice ci presenta il primo incontro di Caterina con l’assessore e il geometra:

Buongiorno signora.

Ingegnere.

Signora mi sembrava più gentile.

Non siamo qui per scambiarci gentilezze.

Ha ragione sa? E’ giusto tenere al proprio titolo.

Non è un titolo nobiliare. E’ il lavoro che faccio. Ingegnere.

Sapete che noi qui abbiamo un castello? Guardate là sulla collina.

A parte che i titoli nobiliari sono stati aboliti.

Preferisce ingegnera? Sapete che quando è venuto il Soprintendente, per il nostro castello, è sceso dalla macchina, era una donna!

Addirittura.

E io l’ho chiamata signora, proprio come il geometra adesso con lei!

E se ne vanta?

E lei mi ha risposto: Architetta, mi deve chiamare architetta!

Ingegnere e basta mi va bene, non pretendo tanto. Cominciamo?

Da qui, da queste prime battute, nasce una narrazione che porterà i lettori a scoprire il mondo esistente all’interno di un cantiere di lavoro dove è soprattutto il linguaggio con i suoi termini specifici a farci scoprire un mondo lessicale sconosciuto a molti che l’autrice dimostra però di conoscere bene ( e’ ingegnera nella vita reale) , frutto di una adeguata e approfondita documentazione di cui la protagonista sarà la convincente interprete. Inoltre qui, il sistema dei personaggi è estremamente realistico, in quanto troviamo operai, tecnici, politici, direttori dei lavori e altri ancora che avranno un ruolo fondamentale nello sviluppo della trama.

In questa prima parte del libro emerge il tema centrale della storia, cioè la difficoltà che una donna deve affrontare quando deve interagire in un mondo del lavoro, spesso declinato al maschile, come in questo particolare contesto specifico dell’ edilizia.

E comunque sarà lei a dirigere il cantiere e il lavoro che dovrà affrontare presenterà molte difficoltà perché Caterina non si è mai trovata ad applicare le nozioni studiate all’Università, non conosce insomma le mille sfumature e gli scarti tra teoria e prassi e nessuno la ritiene capace di dirigere un cantiere.

Costruire un argine è una cosa complessa. Bisogna calibrare bene la quantità di terra fin dall’inizio, evitare le corde molli, prevenire i dilavamenti. Perché se si forma una breccia, puoi anche riparare, ma qualcosa rimane. Perché non basta ridipingere la casa e spostare tutti i mobili. Chiudere le fotografie di prima in un cassetto. Anche con la casa tinta e bianca come la sua vita adesso. Pulita, ordinata, lineare. Una traccia rimane. L’argine lo sa. La memoria rimane.

Sì, perché, oltre alle difficoltà tecniche del suo lavoro, Caterina dovrà affrontare anche una crisi sentimentale scaturita all’improvviso dalla scomparsa, senza nessun motivo apparente, di Pietro, il compagno di una vita … ecco cosa significa la frase “chiudere le fotografie di prima in un cassetto” e far finta di niente. La costruzione di un argine diventa così metaforicamente, tra crolli e aggiustamenti, il correlativo oggettivo della sua vita sentimentale.

Nota Abbate: “ Quest’ultimo brano dimostra bene come i luoghi attraversati da Nina siano pieni di tracce, elementi che richiamano al passato, il cui confronto è per la protagonista necessario per riappropriarsi di se stessa”.

C’è poi un incontro misterioso: l’uomo all’interno della buca che incontra una notte in prossimità di una sua incursione al cantiere. Siciliano come lei le risveglia il ricordo di casa parlando di piatti e cibi tipici dell’isola: eppure la casa di origine di Nina, la Sicilia, è tuttavia un posto dove non ha lasciato niente.

Nota acutamente Alberto Paolo Palumbo:

È proprio a partire dalla casa che comincia il cambiamento della protagonista, il luogo in cui il passato smette di intromettersi nel presente di Nina. La donna deciderà di disfarsi degli oggetti appartenuti al compagno, di rimbiancare di nuovo le stanze, di cambiare posizione ai mobili. Tuttavia, «non sa se ha fatto bene», pensa Nina, «se è stata la decisione giusta. È cosciente che le ombre sono rimaste, sotto lo strato di tinta candida nella quale adesso si specchia. Non sa neanche se la rispecchi davvero, tutto questo candore».

Nina è cosciente che la costruzione di questo argine somiglia molto alla ricostruzione della sua vita, ma per rendere possibile tutto ciò, lei deve troncare ogni rapporto con i fantasmi del passato, perché comunque sa e lo dice che “il movimento è sempre meglio governarlo che subirlo.”

E, a questo proposito, sempre Abbate sottolinea:

Nina intraprende un percorso in cui prova quello che Christa Wolf definì nelle Premesse a Cassandra «dolore di farsi soggetto». La protagonista riesce a emanciparsi dai suoi fantasmi, a «governare il movimento», ma il prezzo da pagare è doloroso. «Il segreto per fare le cose dolorose», pensa, «è farle come se riguardino la vita di qualcun altro», perché «andare avanti significa sempre un po’ tradire. Qualcuno, qualcosa, sé stessi». La donna deve scendere a compromessi con un presente pieno di zone d’ombra, dove ogni cambiamento spesso non porta a benefici e prevalgono gli interessi dei più. L’argine danneggerà l’ambiente circostante, i racconti delle morti bianche degli operai in nero continueranno a esserci, ma per vivere Caterina deve scegliere, e questo significa rinunciare a ogni compassione e a ogni ideale.

E la nebbia, la nebbia che l’accompagna, lei siciliana abituata a ben altri climi, nei suoi continui spostamenti … ebbene anche la nebbia diventa metafora di un disagio esistenziale:

A volte si sente svanire nella nebbia, come se anche il tempo diventasse scivoloso e non si potesse opporre nulla alla forza del fiume in piena. Alla ricerca di un posto dove stare, la prima ad avere bisogno di un argine è lei stessa. E’ tentata di abbandonare, dorme poco e male. Ma , piano piano, l’anonima umanità che la circonda – geometri, assessori, gruisti, vedove di operai – acquista un volto. Così l’argine viene realizzato, in un movimento continuo di stagioni e paesaggi, fino al giorno del collaudo, quando Caterina, dopo una notte in cui fa i conti con tutti i suoi fantasmi, si congeda da quel mondo.

Questo romanzo è lo specchio di una realtà dove, per sopravvivere, bisogna sacrificare valori, sentimenti e ideali, decidendo, seppure a malincuore, di scendere a compromessi con quelle zone d’ombra che escludono la possibilità di un mondo più giusto; si può quindi definire un romanzo di formazione, fortemente introspettivo, perché Caterina dovrà lottare anche con i fantasmi del suo passato, un passato che ritorna e che va gestito per diventare una persona nuova.

Caterina non si chiede se questo cambiamento sia suo fino in fondo. Nessun cambiamento lo è. È solo un passaggio di stato, una trasformazione da uno stato fisico a un altro. È stata solido, si è ritrovata controvoglia liquido, adesso vuole esplorare l'aeriforme....E da aeriforme vuole riconquistare lo spazio, centimetro dopo centimetro, è solo questo il suo obiettivo.

La fine del cantiere è la conclusione del lavoro assegnatoli, e al tempo stesso la base da cui ripartire per costruzioni future.

Concludo citando questa acuta osservazione di Rebecca Molea:

Come ne Le isole di Norman, il microcosmo a cui dà vita Veronica Galletta vibra e respira: prende forma dai drammi privati che si intuiscono dietro uno sguardo sfuggente, come quello di Bernini, o dalle rivendicazioni cieche di Musso, che come un moderno Don Chisciotte si ostina in un’inutile lotta ai mulini a vento. È per questo, forse, che ci si affeziona facilmente ai personaggi di questo romanzo. Si intuisce una vicinanza, un’appartenenza comune: quella vulnerabilità che anche noi abbiamo imparato a soffocare. Leggere Nina sull’argine è come avere una lente d’ingrandimento su quello che ci rende umani: le sviste, i cambi di rotta, i vicoli ciechi, le sbavature e le ripartenze. La voglia di camminare da soli e la paura di non esserne in grado. L’entusiasmo, infine, di scoprire quant’è bello il mondo quando ci si regge sulle proprie gambe.

L’autrice: Veronica Galletta è nata a Siracusa e vive a Livorno. Da ingegnere, ha lavorato quasi vent’anni per un ente pubblico. Con il romanzo Le isole di Norman (Italo Svevo Edizioni, 2020) ha vinto il Premio Campiello Opera Prima.

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Esther Diana

D’anima e terra

Leggendo questo romanzo che vede come protagonista assoluta una madre, non si può fare a meno di pensare a due delle più celebri madri della letteratura: La madre, raccontata da Maksim Gor’kij nell’omonimo romanzo e la Madre coraggio di Bertolt Brecht. In entrambi questi romanzi le madri, seppure in maniera diversa, si sacrificheranno per seguire il tragico destino dei figli; Pelageja Nilvona, nel romanzo di Gorkij , dopo aver abbracciato le idee politiche del figlio si trasformerà nella madre di tutti i suoi compagni, finendo poi per rimanere uccisa in una manifestazione. Anna Fierling sarà chiamata madre coraggio perché ha allevato da sola tre figli avuti da uomini diversi che cerca in tutti i modi di difendere dai pericoli della guerra, senza, però, riuscirci.

Niente di così drammatico capita invece ad Alide, la protagonista di D’anima e di terra , ma la forza d’animo e la determinazione che la caratterizzano non hanno niente da invidiare alle due sopracitate eroine. Sposata con Santo, i due abitano nel piccolo paese di Ciummamari, un piccolo borgo siciliano, hanno cinque figli, Vincenzo, Domenico, Gaetano, Carmelo e Santina e vivono coltivando un piccolo lembo di terra che garantisce loro un minimo di sussistenza e che non è nemmeno di loro proprietà, ma di Don Nino, una sorta di feudatario del paese.

Ed ecco l’incipit di questo romanzo:

Alide si sedette sul masso fuori della porta di casa.

Un masso grande dalla cima levigata perché quel fungere da sedile aveva eroso ogni scabrosità. Santo non era riuscito a toglierlo quando aveva costruito la casa e il muro aveva dovuto ritrarsi di fronte a quell’ingombro che pareva esistere solo per ricordare che la natura, in quel luogo, era la padrona. Anche le pareti dell’abitazione avevano dovuto venire a patti con le asperità del terreno tanto che, non avendole potuto erigere a rettifilo, i mobili, all’interno, non vi stavano sempre addossati parendo ingombri provvisori in attesa di sistemazione. Non era stato possibile avere un terreno migliore perché quello era stato l’unico che Don Nino avesse accettato di affittare per la cifra che offrivano che comprendeva anche l’agrumeto al di là della collina.

Con pochi tratti, qui, l’autrice ha disegnato il contesto povero e precario in cui Alide vive con il marito e i figli.

Questa situazione precaria sarà la molla che farà scattare la decisione di Santo di partire per l’America, a Los Angeles, a costruire strade e, da questo momento in poi, per un’assenza che durerà anni, sarà Alide a gestire il destino suo e dei suoi figli.

E sarà una durissima battaglia quella che condurrà Alide per far studiare i due figli, Vincenzo e Domenico, sfidando la mentalità retriva di Santo che non era d’accordo e anche quella della comunità paesana che vede in questa voglia di emanciparsi un atteggiamento snobistico ed elitario; in realtà Alide, che è analfabeta, sa perfettamente che la cultura è l’unico strumento per affrancarsi dall’ignoranza e dalla miseria e non avrà scrupoli nel trovare con ogni mezzo i finanziamenti per coronare i suoi progetti. E saprà anche gestire in modo razionale la sua vita, riuscendo a sedurre machiavellicamente il potente Don Nino che finirà per cederle la terra su cui sorge la casa e l’agrumeto coltivato da Santo che, così, al suo ritorno non dovrà cercarsi un altro lavoro. Ed ecco come viene descritto l’incontro tra Alide, che ha comunque deciso di prostituirsi a Don Nino, pur di riuscire nel suo intento di far studiare i figli e di regalare l’agrumeto a Santo.

Passarono minuti prima che l’uomo domandasse:

- Cosa avete da offrirmi? Sono tempi per i quali se qualcuno ha qualcosa deve mostrarlo per farlo fruttare. Voi avete qualcosa?

Alide lo guardò senza alcun rossore, senza alcuna ritrosia. Avvertiva solo il pulsare del cuore che sembrava si fosse messo in competizione con il frinire delle ultime cicale.

Sapeva bene cosa gli avrebbe risposto: ci aveva pensato e ripensato in quelle notti insonni o durante quei momenti in cui, seduta sul masso levigato fuori della porta di casa, lo sguardo perso su quel sentiero su cui non transitava più Santo con Mulo, era riuscita, finalmente, a convincersi su come trovare soldi per riscattare il terreno della casa. Ovvero, per pagare il suo debito.

- Sì, ce l’ho.

Ma, nel frattempo, la storia fa il suo sporco lavoro: prima il fascismo e poi la guerra che vedrà coinvolti a vari livelli i figli.

Poi i giochi si chiudono; Santo è morto, i figli hanno trovato una loro posizione e Alide, alla fine, si è trasferita a Firenze con la figlia Santina con l’ intenzione di offrire una vita migliore a quella figlia sfortunata.

C’è stato come un corto circuito tra lei e i figli che ormai non si riconoscono più nella loro terra e, anche se amano la madre, non riescono ad esternarle il loro affetto o meglio non riescono più a sintonizzarsi con quel mondo antico e dialettale di cui la madre è depositaria, non capendo fino in fondo però che, se si sono emancipati da quel mondo retrivo, grazie alla cultura, il merito è stato solo della loro madre.

Ma, dopo alcuni anni e dopo che Santina si è definitivamente e felicemente inserita nel nuovo ambiente fiorentino, in Alide, prende il sopravvento la nostalgia della sua terra. Si sente estranea e anche i figli che si limitano ad andarla a trovare ogni tanto le rimangono ormai quasi del tutto indifferenti.

Ed ecco come l’autrice descrive, nell’ultima pagina del romanzo, il ritorno di Alide alla sua terra:

Solo un’ultima sensazione venne a pervaderla e fu una gioia: l’ultima che le regalò l’anima. Stava tornando a Ciummamari; ne ebbe la visione. Scorse il pozzo nella piazza , il baracchino delle marionette, le vesti cangianti di Angelica, il muro torto della sua casa che un rosario dalle rose rosse aveva del tutto coperto e poi vide Santo che l’aspettava davanti a quel masso. Fu certa che lui le sarebbe andato incontro, l’avrebbe presa per mano e, insieme, sarebbero entrati in casa.

Null’altro le restava da fare: comprese che stava tornando alla terra. L’anima finalmente sarebbe volata libera verso il cielo.

Con un linguaggio crudo ed essenziale che ha ben riprodotto la vivacità del parlato, l’autrice è riuscita a raccontare una storia improntata ad un realismo duro e a tratti brutale, riproducendo ambienti sociali e geografici fortemente caratterizzati da credenze, luoghi comuni, superstizioni e da un’ignoranza atavica. Un microcosmo claustrofobico da cui Alide riesce a far evadere uno alla volta i suoi figli, donando a loro un futuro migliore. Esther Diana ha dato vita con questo romanzo ad un personaggio di donna, quasi un archetipo di un femminismo coraggioso ed estremo, considerando gli anni bui in cui si svolge la vicenda, che titanicamente riesce a sconfiggere le avversità di un destino beffardo ridicolizzando i pregiudizi e le arcaiche convinzioni di una mentalità contadina e reazionaria. Solo alla fine del suo percorso avvertirà l’esigenza di ritornare al suo paese, ma solo per ricongiungersi spiritualmente alla sua terra e a quel marito ormai fantasma che simbolicamente l’attende per un estremo saluto.

Ed ecco come l’autrice presenta il suo romanzo:

Immaginate Ciummamari, un paesino della Sicilia degli anni Venti. Un paesino arroccato su una collina sassosa che guarda il mare lontano. Vi abita povera gente che non chiede di più che il poter campare alla giornata. E immaginate una donna analfabeta, madre di cinque figli, innamorata del marito che sta partendo per l’America allo scopo di guadagnare quel tanto da consentirgli di acquistare il lembo di terra che coltiva. È il suo sogno quello di diventare proprietario e non per il semplice possesso ma solo perché ama visceralmente quell’agrumeto che coltiva, grande poco più di un fazzoletto.

E immaginate, ancora, questa donna che – all’indomani della partenza del marito – modifica i destini dei familiari decidendo di destinare i soldi che le giungeranno da oltre oceano per mandare i due figli maggiori in un collegio a Catania perché possano diplomarsi e – addirittura – andare poi all’ Università.

È una storia di emancipazione femminile all’incontrario; ovvero di una lotta che non rivendica diritti ma che, straordinariamente, vuole ‘aiutare’ l’uomo ad evolversi.

Alide – questo è il nome della protagonista – non lotta per sé, per quell’analfabetismo che le ‘graffia’ il cuore; semplicemente, vuole dare una occasione ai figli maggiori – confidando che questi possano poi ‘aiutare’ gli altri – per vivere lontano da quella terra che irretisce con i suoi colori, i suoi profumi, i silenzi dei grandi spazi ma che, a ben guardare, è solo sassi, fichi d’india e poco altro.

Alide è caparbia; non si fermerà davanti alle complicazioni che seguiranno a questa sua ‘decisione’ rischiando l’amore del marito, perdendo il rispetto dei parenti e del paese che confondono il suo desiderio di offrire un futuro diverso ai figli con presunzione e superbia.

Non indugerà neppure nel costringere la figlia a una vita di solitudine dove è importante solo il lavorare indefessamente per i fratelli affinché possano permettersi di studiare.

Alide non lesinerà neppure a sé stessa fatica e umiliazione e quando i soldi che arrivano dall’America con quelli che le due donne guadagnano non basteranno per pagare le rette del collegio e poi dell’Università ecco che venderà l’unica cosa che, in quel mondo, le appartiene: sé stessa. Non ha altro: non un gioiello, un corredo, un mobile, una qualsiasi cosa che possa costituire merce di scambio. E si venderà solo ad uno: al padrino di turno e lo farà con dignità mai nascondendo l’amore che la lega al marito ma anche consapevole che, a volte, la brutalità di modi e di fini, nascondono animi incapaci di amare solo perché, semplicemente, nessuno glielo ha insegnato.

Attorno al personaggio di Alide si muovono uomini: quasi tutti ‘piccoli uomini’, invischiati nel loro vivere quotidiano dove l’insorgere del fascismo esalterà in alcuni effimeri poteri. Si eleva dal ‘gruppo’ la figura di Santo, suo marito, ma solo perché è un poeta e per questo, alla fine, lo si assolve da quel suo vivere fuori dal mondo. È un poeta perché vive per quella natura che lo circonda, che si esaurisce in lui bastandogli, e che lo induce a non ‘chiedersi’ nulla.

La decisione di Alide – nei propositi – sarà vincente: i figli diventeranno un medico, un professore, un avvocato, un giornalista; ognuno lo diventerà seguendo la propria strada ma non è detto che, alla fine, saranno uomini felici. Anzi, proprio la cultura acquisita li farà sentire estranei alla Terra che li ha generati e la Sicilia diverrà un ingombro, un ‘pensiero’ da rimuovere; forse addirittura da cancellare.

E, sempre alla fine, anche Alide si renderà conto che quei sassi , quelle agavi , quegli agrumeti e quelle capre che avrebbero dovuto costituire, nella logica di quel contesto, il solo futuro possibile per i figli – futuro al quale si era ribellata con tutta la sua forza – rappresentavano, forse, davvero, l’unica possibilità di vivere felici perché, come per la filosofia di Santo, la natura non la si deve conoscere troppo o interrogare, ma solo guardare lasciandosi permeare da essa. 

Pierantonio Pardi

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