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MUSICA E DINTORNI — il Blog di Fausto Pirìto

Fausto Pirìto

FAUSTO PIRITO - Sulle strade del Pop (e non solo) con l'ex caporedattore di Tutto Musica & Spettacolo, già direttore artistico del contest Rock Targato Italia e garante del Festival della contaminazione BresciaMusicArt, ideatore e curatore del Tributo ad Augusto Daolio e del contest Soms Experience, autore dei libri “In viaggio con I Nomadi” e “Vasco in concerto”

Guido Elmi: un romantico sotto la maschera da duro

di Fausto Pirìto - sabato 05 agosto 2017 ore 08:00

Guido Elmi: 13 ottobre 1948 - 31 luglio 2017

Guido Elmi, storico produttore e braccio destro di Vasco Rossi, ha compiuto il suo tempo all'età di 69 anni. Lo conoscevo dai primi Ottanta e di una cosa sono sicuro: Vasco, senza il suo contributo artistico e umano, non sarebbe stato lo stesso... un bel “caratterino” il suo, burbero ma oltremodo collaborativo quando ne valeva la pena...

Ricordo l'ultima telefonata con lui: “Pronto?!? Ciao... sono Elmi, Guido Elmi... Ti chiamo per anticiparti che tra pochi giorni uscirà il mio primo cd, il singolo IT'S A BEAUTIFULL LIFE che anticipa l'album LA MIA LEGGE. Volevo farti sapere che nella cartella stampa, per la biografia, ci siamo ispirati all'intervista che mi facesti tu qualche anno fa per il tuo libro VASCO IN CONCERTO... Bella, perfetta... e ho pensato che era davvero inutile starne a scrivere un'altra”.Uomo di poche parole, Guido. Ma le sue sono sempre state parole schiette, non una di più non una di meno... la nostra amicizia, magari vissuta a singhiozzo, non si è mai dissolta... allora, voglio ricordarlo con il racconto della sua vita, che mi affidò durante l'ultima nostra lunga chiacchierata a casa sua, nella campagna emiliana...

«Camugnano, un tranquillo paesino dell’Appennino tosco-emiliano. Lì, dove sono nato da una famiglia di contadini e operai, ho le mie radici. Mio padre a casa non c’era quasi mai, andava sempre in giro per il mondo a lavorare, soprattutto in Africa, dove era caposquadra in una compagnia di elettrificazione. Da piccolo, lo vedevo ogni due o tre anni. Quando tornava, portava sempre con sé regali mitici: pelli di leone e leopardo, ananas in- credibili... Io lo vedevo come un avventuriero e guardavo e riguardavo le sue foto con i serpenti attorno al collo o in posa con il machete in pugno.

A Camugnano sono cresciuto in compagnia dei miei cugini, ma in fondo la mia è stata un’infanzia solitaria: lunghissime passeggiate in campagna circondato dai suoni della natura, sempre a giocare con la mia fantasia. Credo che questa solitudine incantata e silenziosa abbia influenzato molto il mio carattere, il mio futuro e anche il mio mestiere di produttore artistico. Nel 1960, a 12 anni, andai a vivere a Bologna con mia madre e finalmente mio padre tornò in pianta stabile in Italia. Di lì a poco, nel mio mondo arrivò la musica. Cominciai a suonare la batteria, ma nel condominio dove abitavamo i vicini non sopportavano questa mia passione, così passai alla chitarra. Studiavo e lavoravo: cameriere, facchino e altri piccoli mestieri. Nel frattempo frequentavo alcune band bolognesi suonando la chitarra ritmica e le percussioni. Riuscii a laurearmi in Scienze Politiche, ma subito dopo decisi di aprire un’osteria insieme con alcuni amici. Fu un’esperienza di un paio d’anni e misi da parte un po’ di soldi che mi permisero di stare un periodo senza lavorare.

A quei tempi, i miei gusti musicali erano da “Mucchio Selvaggio”, intendo la rivista, e la musica italiana non mi interessava. Mi piacevano Elvis, i Platters, il sound degli anni Cinquanta... Appena uscirono i Beatles me ne innamorai, ma li tradii per i Rolling Stones. Poi diventai fan dei Led Zeppelin, degli Animals, dei King Crimson e della musica anglosassone di qualità. Dopo aver venduto l’osteria andai per sei mesi a Monaco di Baviera, dove ho acquistato le congas che suono tuttora. Più tardi, nel 1978, eccomi a scuola di percussioni da Karl Potter. Intanto avevo conosciuto Maurizio Solieri e insieme facemmo dei provini negli studi Umbi, qui in Emilia, di certi suoi pezzi in chiave jazz-rock. Maurizio mi disse che aveva suonato in un disco per un giovane cantante di Zocca, Vasco Rossi, e voleva assolutamente che lo ascoltassi. Io gli risposi che la musica italiana non mi interessava proprio, ma lui mi regalò l’Lp NON SIAMO MICA GLI AMERICANI. Subito dopo mi capitò di vedere Vasco in tv, a “L’altra domenica”, e pensai: “Però, questo ha un gran talento...”. La collaborazione con Maurizio mi piaceva e sullo sfondo era apparso Rossi, che stava cominciando a organizzarsi per un tour. Un giorno Solieri mi fa: “Sai, dobbiamo mettere su una band per Vasco. Ci stai? Dai, che te lo presento”. L’incontro avvenne in un bar di via Marconi, a Bologna. Vasco mi fece un’ottima impressione, e pensai: “Sicuramente farà strada”. Nei suoi occhi vidi determinazione, intelligenza, genialità, e soprattutto vidi la faccia di uno destinato al successo: da avventuriero sognatore quale ero non potevo lasciarmi scappare l’occasione.

Cominciai così a suonare le congas nel gruppo, insieme con Solieri, Massimino Riva e gli altri. Facemmo da principio un po’ di date a Bologna, come il Festival dell’Avanti in Piazza Maggiore e una manifestazione improbabile che si chiamava “Romilia”, una specie di fiera cittadina. Mi divertivo, ma il mio sogno era quello di stare dietro le quinte a organizzare la produzione e gli eventi. In quel periodo, oltre a suonare facevo un po’ di tutto: dal facchino al fonico saltuario, dal “gorilla” al cassiere. Questa storia andò avanti così per un paio d’anni.

Nel 1981 decisi di non salire più sul palco, anche per una sorta di timidezza che mi è connaturata da sempre. L’episodio clou avvenne a Treviso. Il pubblico, una trentina di persone, cominciò a tirarci addosso di tutto. Nel vedere le mie congas infilzate da una miriade di freccette mi misi quasi a piangere, e dissi basta. La mia decisione venne presa bene dagli altri, anche perché un manager ci voleva e io ero l’unico che aveva la grinta, la faccia tosta e la “stazza” per ricoprire quel ruolo. L’anno prima, durante le registrazioni dell’album COLPA D’ALFREDO, avevo cominciato a occuparmi anche di produzione in studio, visto che il produttore di allora non c’era quasi mai. Il mio vero esordio da produttore artistico avvenne poi con l’album SIAMO SOLO NOI. Da quel momento il sound dei dischi di Vasco prese forma, si consolidò. Per il tour avevamo comprato un impianto Montarbo, di media potenza, che avevo finanziato quasi tutto io. Ce lo rubarono, e rimasi indebitato per anni. Da allora fummo costretti ad affidarci a modestissimi service di amplificazione, visto che non potevamo spendere più di tanto. Decidemmo anche di adottare una politica di cachet bassissimi, pensando esclusiva- mente al futuro, e fino al tour di “Bollicine” non guadagnammo quasi nulla. Andavamo a suonare ovunque a prezzi irrisori, ma l’importante era fare tante date, farsi conoscere, creare una solida base di fan, investire su noi stessi. D’altronde, incassare pochi spiccioli o nulla era, per chi aveva in testa un sogno, quasi la stessa cosa. E per me, aiutare Vasco a diventare famoso, fare il produttore artistico, organizzare concerti era diventata la priorità, lo scopo della mia vita.

Farsi largo nel mondo della musica non è mai stato facile. A quei tempi meno che mai. Così mi toccò costruirmi addosso una corazza indossando la “maschera” del duro, anche se, sotto sotto, io sono un pezzo di pane. A dire la verità, questo giocare a fare il “cattivo” non mi è mai pesato. Mi pesava di più non poter tirare fuori quello che sono in realtà: un romantico impenitente, troppo sensibile. Ma c’era e c’è un altro lato del mio carattere che mi ha sempre influenzato. Sono cresciuto con dentro la morale dei film western alla John Ford e ho sempre creduto più al Vecchio Testamento che al Nuovo: chi sbaglia paga, il Bene e i buoni da una parte, il Male e i cattivi dall’altra. Per tornare a Vasco, da subito si instaurò un rapporto simbiotico, anche se lui, a ragione, non si è mai fidato ciecamente di nessuno, neanche di me. Io ero quello che a volte lo andava a svegliare e lo portava alle serate. Diciamo che, all’epoca, vivevamo una fase molto creativa e disordinata. Stare insieme giorno e notte, per anni e anni, fu quello che ci portò alla temporanea rottura. Infatti, piano piano, il progetto cominciò a ingigantire. Dopo il Festival di Sanremo del 1983 e dopo il disco BOLLICINE, che mi fece vincere un Telegatto come produttore, mi resi conto che non ce la facevo più a ricoprire troppi ruoli. BOLLICINE per me rappresentò una svolta professionale importante: nell’album avevo suonato in molti brani, soprattutto la chitarra Rickenbacker 12 corde che usai anche per il riff del pezzo che dà il titolo all’album, di cui avevo provinato il giro armonico. Una bella soddisfazione: ma capii che avrei dovuto fare solo il produttore, al limite occupandomi di seguire anche la realizzazione delle copertine, ma non potevo continuare a caricarmi di tutte le responsabilità. Si cominciava finalmente a guadagnare qualcosa, e grazie a questo c’era la possibilità per me di dedicarmi a un solo lavoro, diversificando e delegando il resto. Così, passai la mano del management.

Con Rossi filò tutto liscio fino pressappoco al 1987 e all’album C’È CHI DICE NO. Giunti a quel punto, avevamo bisogno entrambi di un momento di pausa. Io avevo anche dei seri problemi di salute, e il mio primo pensiero era di continuare a vivere, mentre lui aveva l’esigenza legittima di affrancarsi da me. Lo staff che avevo assemblato continuò il lavoro e noi ci separammo con grande rispetto reciproco. Nei tre anni successivi non ho mai rilasciato interviste, né tantomeno parlato di questa storia: mi sono creato una mia vita, ho prodotto con un certo successo la Steve Rogers Band, Clara & Black Cars e gli Skiantos e lavorato a Lp di cantautori come Alberto Fortis, Marco Conidi e Edoardo Bennato. Vasco apprezzò questo mio comportamento e infatti nei primi anni Novanta mi richiamò con sé. Il nostro rapporto di collaborazione da quel momento cominciò a poggiare su basi nuove e meglio definite. Finalmente potevo occuparmi solo della produzione artistica, che era poi la cosa che avevo sempre sognato. Iniziai anche a scrivere canzoni con Tullio Ferro. Insomma, ero partito come manager, azzeccagarbugli, guardia del corpo,“psicologo”, consigliere, per arrivare a fare quello che mi piace di più, il produttore di studio e il musicista. Oggi, ad esempio, la preproduzione dei nuovi brani la realizzo molto spesso da solo con l’aiuto di Frank Nemola e NicolaVenieri, ovviamente con un Vasco molto presente che mi corregge tutto quello che non gli piace. Da uomo maturo, anche grazie alle nuove tecnologie, ho imparato un sacco di cose che prima delegavo con una certa sofferenza.

Parlando di come è evoluta la dimensione live di Vasco, ricordo degli episodi divertenti che risalgono ai primi anni Ottanta. Lo “zoccolo duro” dei nostri fan era concentrato in Emilia, nel Bresciano e in Veneto. Già Firenze per noi era off limits, di Roma poi non parliamone proprio. Una volta, era forse il 1981, fummo invitati in un locale di Torino come “attrazione” della serata. In sala c’erano non più di dieci paganti, ma per loro suonammo lo stesso una quarantina di minuti. Un’altra volta ci chiamarono per un concertino aVentimiglia. Arrivati là, ci accorgemmo che non c’era la corrente elettrica. Non ci perdemmo d’animo e facemmo uno dei primi unplugged della storia, davanti a una ventina di persone. Che però, grazie al passa parola, al concerto successivo raddoppiavano. Noi siamo cresciuti molto lentamente, e forse questa è la cosa che ci ha portato dove siamo oggi. Un po’ di gente iniziammo a vederla con il “Vado al massimo Tour”, dopo il Sanremo del 1982. Suonavamo in moltissime Feste dell’Unità, soprattutto in Emilia, dove ormai eravamo famosi grazie anche al grosso lavoro di promozione fatto da Vasco negli anni precedenti con Punto Radio. Mi ricordo che alla Festa di Gorganza, in provincia di Reggio Emilia, lo stage era fatto di due rimorchi di camion ribaltati, e insieme con noi era in cartellone Pierangelo Bertoli: in pratica un concerto in due tempi. Al pomeriggio, durante il sound check, il fonico di Bertoli si ingegnava su quel palco a dir poco originale. Quando il tecnico chiese a Pierangelo: “Come va?”, lui rispose, in stretto modenese: “Tot a post, ma bisogna alver cinquanta per cent la vos e cinquanta per cent la chitara...”. Bertoli era molto simpatico, bravo e genuino. La sera, poi, durante l’esibizione Vasco arrivò a cantare Jenny, un pezzo molto lento e di grande atmosfera. Nel bel mezzo dell’esecuzione, da lontano, ma a un volume che copriva quasi la sua voce, arrivò un annuncio da un altoparlante dalle frequenze molto nasali che diceva in italiano, ma con chiara cadenza dialettale: “Si ‘avertono i com- pagni lavoratori che allo stand di Campagnola sono ancora disponibili porzioni di patatine fritte!”. Roba di un secolo fa! Poi le platee sono cambiate e sono aumentate progressivamente le presenze.

Nel 1983, il tour di “Bollicine” era già imponente non solo per il numero di date ma anche per le città toccate: Roma, Firenze, Milano, Verona, Cagliari... Fino al 1987 fu un crescendo inarrestabile, anche grazie al contributo e all’esperienza del promoter di allora, Enrico Rovelli. Poi, negli anni Novanta, una volta rientrato nell’entourage diVasco mi ritirai del tutto dall’organizzazione dei concerti. Di quel decennio, la situazione che ricordo con maggiore partecipazione e orgoglio è quella del 1995 con “Rock sotto l’assedio” a San Siro. In particolare ricordo l’arrangiamento molto rock della cover di Generale di Francesco De Gregori e l’introduzione di musica classica in cui utilizzai l’ouverture del Don Giovanni di Mozart. Io sono un grande ascoltatore di musica classica, mentre sono poco attratto dal pop, anche se amo molto i Pet Shop Boys. Quest’anno, ad esempio, l’intro che abbiamo usato per la seconda parte del tour era presa dal secondo movimento del Requiem tedesco di Brahms. Ma uno degli inizi più belli fu quello di un tour di una decina di anni fa, dove utilizzammo l’ouverture del Rienzi di Wagner. Impareggiabile, da brividi!

Nei live, quelli di ieri e quelli di oggi, si cerca sempre di accontentare tutti gli spettatori. Ma se un tempo ai concerti venivano quasi esclusiva- mente i fan, da anni ormai una parte della platea è costituita da un pubblico variegato, e non è facile andare incontro ai gusti e ai desideri di tutti. Mettere giù una scaletta, scegliendo fra oltre 160 pezzi a disposizione, è una vera impresa.Allora, la cosa migliore è seguire l’istinto e fare quello che ci si sentiamo dentro in quel momento. Se cominciassimo a farci tirare per la gi-acchetta da chi magari pretende solo i brani a lui più cari, alla fine ci perderemmo senza più sapere chi siamo e che cosa vogliamo.Tra i fan c’è chi spesso punta il dito contro di me, alcuni mi ritengono il colpevole di tutte quelle scelte che secondo loro sono “nefande”. Queste accuse sono ingiuste, ma io mi assumo tutta la responsabilità, sia per salvaguardare gli altri sia per il mio carattere che mi porta a sfidare i luoghi comuni. Naturalmente, teniamo tantissimo ai fan e ascoltiamo con attenzione i loro pareri. Spesso, se è possibile inserirla, qualche richiesta la esaudiamo, anche se ovviamente alcune si elidono tra loro. Però il brano richiesto deve starci davvero nella scaletta, perché il concerto deve avere un suo “climax”, un processo sonoro vissuto come un tutt’uno e non una semplice lista di canzoni. Non possiamo certo mettere quattro hit o cinque lenti di fila, no? Dobbiamo creare un movimento musicale che di volta in volta tenga conto di una molteplicità di fattori: se il concerto è all’aperto o indoor, quanto pubblico è previsto, quanto è lunga la performance, se c’è un disco nuovo da far conoscere e, soprattutto, lo stato d’animo di Vasco. Il confronto tra di noi è continuo. E anche in studio, durante le registrazioni, come durante le prove di un concerto, non ci sono mai scontri decisivi. Io, forse, tendo molto all’azzardo, e lui, come me, pretende tanto dai musicisti. Che sono bravissimi. Vasco mi ascolta e mi segue con interesse ma l’ultima parola spetta a lui, e io accetto con convinzione, primo perché sul palco non ci vado io, e secondo perché gli riconosco una grande intelligenza. In effetti, il sottoscritto può avere degli scatti di genialità, ma non sono analitico e acuto quanto Vasco; lui è molto attento a bocciarmi alcune stronzate ma sa sempre cogliere quello che c’è di buono nelle mie proposte, fosse anche soltanto un particolare, una sfumatura.

Dopo trent’anni di lavoro e di sincera amicizia, una delle cose che apprezzo di più in Vasco, al di là naturalmente dell’aspetto artistico, è che ha saputo creare e tenere insieme nel tempo una squadra che funziona ancora oggi alla grande, nonostante piccoli e inevitabili bradisismi di scollamento che nascono all’interno di un gruppo. Vasco ci ha regalato un bel sogno, un sogno in cui tutti noi e la gente che ci segue siamo cresciuti e ci riconosciamo. Il suo grande merito, rispetto ad esempio alla famigerata “vita spericolata”, è stato che lui ha saputo tradurla in poesia. Io conosco persone che hanno vissuto e vivono ancora esistenze molto più avventurose e pericolose della sua, ma lui, attraverso la sua declinazione artistica della realtà, è riuscito a costruirci in- torno una poetica originale, sublimando emozioni e sensazioni comuni a tanta gente. Oggi come ieri, quello che mi unisce a Vasco è un certo disincanto nei confronti della vita e una sana apertura mentale. Noi due non siamo mai stati ideologicamente compressi. Certo non viviamo più una vita privata condivisa, la nostra quotidianità, a parte il lavoro, è nettamente separata. Come ben distinta è oggi la realtà quotidiana di Vasco e quella dei suoi musicisti. In realtà lui c’è sempre, c’è per tutti, magari in una modalità più “diluita” di una volta. E mettiamo pure in conto che la vita di Vasco è molto complessa: sempre assediato dal pubblico, punzecchiato dai giornalisti e assillato dalle più svariate richieste. Lui è oltremodo disponibile, ma mettendomi nei suoi panni penso che farei lo stesso, per autodifesa. Insomma, e per concludere,Vasco per me è un “continuum” ed è come se ce l’avessi dentro da sempre».

Buon viaggio Guido... vola piano...

Buona Musica a tutti... It's a beautiful life!

Fausto Pirìto

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