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venerdì 01 novembre 2024

SORRIDENDO — il Blog di Nicola Belcari

Nicola Belcari

Ex prof. di Lettere e di Storia dell’arte, ex bibliotecario; ex giovane, ex sano come un pesce; dilettante di pittura e composizione artistica, giocatore di dama, con la passione per gli scacchi; amante della parola scritta

Sogno (in musica)

di Nicola Belcari - sabato 11 dicembre 2021 ore 07:30

Nel sogno tornava un tempo passato, nelle canzoni che si mischiavano in un turbinio di parole e melodie risentite mille volte, in un “festival” della memoria. Era la giovinezza, un tempo perduto e ritrovato solo in sogno, “perché quelli che ci fregano dentro sono gli anni, che ci lasciano soltanto e sempre dei ricordi, che ci lasciano qualcosa che non tornerà” come meditava con malinconia Luciano Rossi.

Un universo che fu in cui i “Ricchi e Poveri”, superando la differenza che li divideva, cantavano insieme come se niente fosse, incuranti delle drammatiche lotte che i loro compagni di classe sociale avevano ingaggiato e stavano combattendo senza esclusione di colpi. Anche perché il principio che accomunava molti canzonettisti era, in nome dell’amore: “se cade il mondo, allora ci spostiamo”. Tale idea dominava, infatti il nostro Gianni cantava: “ma chi se ne importa … un giorno d’amore per me vale più di cent’anni” per poi concludere: “peccato che al mondo si vive una volta soltanto” dichiarando en passant apertamente la propria convinzione contraria alla reincarnazione. Il concetto era ribadito dalla Gigliola: “può cadere il mondo ma, ma che importa a me?” spiegando appunto che “la pioggia non bagna il nostro amore quando il cielo è blu”. E per finire: “Che m’importa del mondo quando tu sei vicino a me!” (Rita).

Non erano ancora maturi i tempi per poter dire: “chi se ne frega”.
Nicola di Bari, omonimo del santo vescovo più famoso e amato del mondo cristiano, cantava “vagabondo, vagabondo, qualche santo mi aiuterà” che non era, come si sarebbe potuto credere a un primo superficiale e parziale ascolto, né una canzone religiosa, né, secondo un controverso luogo comune, l’inno dello statale felice.

Resta da comprendere come sia stato possibile premiare con la vittoria a “Sanremo” una canzone con una musica che sembra troppo ispirata a un’altra e con un testo, per giunta, assai peggiore, basato sulla risoluzione retriva e antisindacale “chi non lavora non fa l’amore” (oggi si starebbe lustri!) di una moglie (C. Mori), una “Lisistrata” (dello sciopero del sesso) al contrario dell’originale, meschina e casalinga frustrata. Forse con perfidia si volle “eternare” la vergogna di una canzonetta che strizzava l’occhio al più gretto spirito piccolo borghese e sancire la povertà culturale del giudizio. Un vero mistero.

Una nota dolente. Purtroppo, già esordiva l’inquinamento: “vola la farfalla impazzita”, a causa dei pesticidi, sennò perché? Indimenticabile l’atmosfera bohémien di “un panino, una birra e poi”, un caffè? No, grazie, “la tua bocca da baciare”, che senza specificare lasciava all’immaginazione il sapore del bacio seguito alla consumazione, se alla mortadella o al salame.

Non mancava un eccentrico che si proponeva di “guidare a fari spenti nella notte” (ma non sarebbe stato meglio farlo di giorno? per la propria e l’altrui incolumità) scommettendo sull’efficienza dell’illuminazione pubblica, i lampioni del Comune, o sul plenilunio? Non tutti si facevano gli affari loro e l’infame sicofante, delatore, spia, “Jago”, sosteneva che quella che aveva visto fosse "Francesca" (Mogol - Battisti, le ultime quattro canzoni appena rammentate).

In tanti (C. Villa, per dirne uno, e compagni vari) si sarebbero accontentati di “un’ora sola (ti vorrei)” sicuri che sarebbe bastata per fare quello che avevano in mente, non del tutto chiaro. Un altro ancora si preoccupava della fidanzata, per il senso di colpa, lasciata sprovvista della borsa dell’acqua calda: “Chi la scalderà?” (I Pooh)

Bei tempi, comunque, quelli della seconda bi, cara “Lisa dagli occhi blu, senza le trecce, la stessa non sei più. La primavera è finita, ma forse la vita comincia così. Amore fatto di vento, il primo rimpianto sei stata tu” (M. Tessuto).

Si trattava pur sempre di un mondo di giovani donne dagli occhi blu (la parola tronca è consona alla nota della fine del verso) e talvolta verdi. Occhi blu capaci di attrarre in un gorgo fatale in cui perdersi, al punto di rinunciare alla libertà: “come un sasso che l’acqua tira giù, io mi perdo nel blu degli occhi tuoi. La mia libertà non la voglio più” (Donatello).

Un mondo di sogno che la realtà e il tempo tradiscono, come un fiore, un anemone viola, che il “vento caldo dell’estate... sta portando via” (F. Battiato).

Nicola Belcari

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