Paolo Rossi
di Libero Venturi - domenica 13 dicembre 2020 ore 07:30
E così anche Paolo Rossi se n’è andato. Questo 2020, funesto e bisesto, menomale fra poco se ne va perché danni ce ne ha lasciati assai. Paolo Rossi non era Maradona, però il suo palmares è di pari livello e di gol ai mondiali ne ha fatti di più. Tre reti nel ‘78 in Argentina, sei in Spagna, capocannoniere, nell’82; in Messico, nell’86, fece solo panchina. Nessuno lo ha chiamato “el dios”, se Dio vuole, tuttalpiù “Pablito”. Che già quel nome, Paolo Rossi, era più da ragioniere, diciamo la verità, che da campione di calcio. Eppure il mondiale in Spagna nell’82 ce l’ha fatto vincere lui. Lui, quella squadra di assi e Bearzot, il C.T con il naso da pugile. E in tribuna a Madrid il Presidente della Repubblica Pertini, partigiano e tifoso, che al Re di Spagna disse «con questi azzurri non ce n’è per nessuno» e sull’areo che li riportò a casa con la coppa del mondo, litigò alle carte in coppia con Zoff, perdendo a scopone contro Causio e Bearzot e non ci fu niente da ridire. Se non che Zoff aveva ragione. Bei tempi!
Paolo Rossi non era fisicato, semmai l’opposto, i suoi menischi erano andati ed era, per sua stessa ammissione, un centravanti “anomalo”. Ma non un “falso nueve”, uno di quei tanti che, in mancanza di attaccanti di rango, imperversano nell’estenuante tatticismo del calcio odierno. No, per l’amor de dios, lui sarà stato anche anomalo, atipico, ma centravanti era per davvero. Centrattacco, come si diceva allora. C’era sempre, su tutte le palle. I difensori se lo perdevano un attimo e lo ritrovavano in porta. Non era un colpitore di testa per eccellenza, ma anche di testa i suoi gol li faceva, eccome. Era maestro dello smarcamento, aveva velocità, colpo d’occhio, tecnica, precisione e senso della rete, doti rare, oggigiorno smarrite dagli attaccanti. Sembrava un folletto dell’area di rigore: si materializzava e segnava. E mica contro squadre di parrocchia. Belgio, Francia, Ungheria, Austria, Brasile, Polonia, Germania. E comunque dall’Oratorio e dai campi parrocchiali pratesi era partito e, prima di approdare stabilmente alla Juve e al Milan, si era formato, prevalentemente al nord, nelle squadre di provincia di un’Italia provinciale. Fu valutato cinque miliardi di lire, allora e anche ora cifra da capogiro, da far dimettere dalla FGCI Carraro, che pure era uomo di mondo. Giocò in diverse squadre, ma mai a Napoli salvandosi dall’idolatria popolare. E dalla smorfia.
Con quella faccia da bravo ragazzo, pettinato normale e senza gli orribili tatuaggi dei calciatori, non era nemmeno perfetto: tutti noi siamo imperfetti, è questo che ci rende umani. Fu accusato o forse infamato per una partita da pareggiare, Avelino-Perugia, nel ‘79, nell’indagine del calcio scommesse. Quella partita finì in effetti due pari e lui segnò pure le due reti degli umbri, ma pare fosse previsto. Del toto nero dichiarò di non sapere niente. Condannato, si fece, interi, senza sconti, due anni di sospensione, rientrando per fortuna in tempo per i mondiali. Per il suo riscatto.
“Dacci oggi il nostro calcio quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti...”. Per la mia megalomane vanagloria vi racconterò una storia vera, anzi due. Prima storia. In un campionato di calcio di terza categoria del secolo scorso il primo dei due gol che feci al Lajatico, su corner, in mischia, non lo segnai di testa. Saltando inclinai più che potevo la cabeza sulla spalla, ma il pallone era basso e colpii di braccio, quasi spalla, ma di braccio, con il braccio “abbastanza” attaccato al corpo. Oltre che rigore, anche gol è “quando arbitro fischia”. E l’arbitro fischiò. Non dissi che era di mano, ma nemmeno che la mano era di Dio, come Maradona. Anche perché, semmai, era braccio, quasi spalla, e poi non ero credente. Ah, e non ero neanche Maradona.
Seconda storia. Poche giornate alla fine di un campionato amatori, sempre del ‘900, c’erano due squadre di un paese alla periferia di Pisa. Quella in cui giocavo veleggiava a metà classifica, l’altra era in corsa per lo scudetto. Passò voce che un pareggio nel derby paesano sarebbe stato bene ad entrambe. Onorevole per noi, utile per loro. Così la partita si trascinò stancamente, nessuno affondava le azioni e i colpi. Attaccava la profondità, come si dice oggi. Sembrava come quando un prestigioso dirigente del PCI, ora scomparso- sia il dirigente che il PCI- ci disse che la politica che facevamo a Pontedera era come vedere due squadre che giocano a calcio, ma senza il pallone. Vizio ricorrente. E così noi. Comunque andava tutto bene e verso la fine si era ancora sullo zero a zero. Anch’io, come gli altri, tiravo a campare: partita di allenamento. Un “biscotto”. Sennonché lo stopper cominciò a sfottere chiedendo se fossi proprio io il capocannoniere del campionato. Così, siccome per sua sfortuna lo ero, la prima palla che capitò in area la presi di testa -questa volta davvero- la scaraventai in porta e vaffanculo! Uno a zero per noi. Non so come finì il campionato, chi lo vinse, ma chissenefrega. Per dire che anche nelle migliori famiglie queste cose si fanno. Ma come si fa a non giocare?
Paolo Rossi nel 1999 fu candidato alle elezioni per Alleanza Nazionale; l’ho detto che non era perfetto. Però si impegnò anche per beneficenza, a livello sociale. Ed era appassionato di arte e di pittura. Perché il calcio non è tutto. Per le esequie funebri ha voluto essere esposto in uno stadio, tornando a Vicenza. La squadra che lo lanciò giovanissimo, che lui portò dalla B alla A, seconda in classifica, e fu capocannoniere: il Lanerossi Vicenza. Attualmente milita nel campionato della serie cadetta. Nel rispetto della pandemia non ci saranno osannanti folle assiepate. Poi Pablito sarà cremato. Non ci sarà alcuna tomba su cui piangere “la gioia del popolo” o ringraziare la pelota. “Pulvis et umbra”, l’ho scritto anche per Maradona, ma a contrasto.
Torturato dalle ginocchia e forse appagato dalla sua fama o per non sciuparla, aveva smesso presto di giocare, era diventato imprenditore, opinionista sportivo e televisivo. A 64 anni, troppo in fretta, è morto come tanti di un male incurabile di cui non parlava mai. Riservato, attento alla sua privacy. Niente proclami o appelli internazionali. Niente pose da supereroe. Sorridente e gentile. Maglia azzurra e braccia levate al cielo. Se c’è un messaggio che ci lascia è la semplicità. Perché, come dice la canzone, “Paolo Rossi era un ragazzo come noi”. Buona domenica e buona fortuna.
Libero Venturi