I cerchi nel grano
di Marco Celati - mercoledì 22 marzo 2017 ore 07:30
Un torbido delitto per il commissario Favati
Correva trafelato dentro il grano, in preda al terrore. Sentiva gli inseguitori farglisi dietro. Quanti erano? Gridò aiuto alla notte di maggio, ai grilli notturni, alle stelle silenziose. Un urlo roco, soffocato in gola. Nessuno poteva udirlo in quei campi, a ridosso degli argini dell'Arno, lontani dalle case. Quanti giri fece, fendendo e schiacciano le spighe già alte, in un vano tentativo di fuga! Poi, con una furia cieca, gli furono addosso e fu una lotta sorda e breve, scandita dai lamenti e dai colpi della lama che affondava nella carne, ancora e ancora e ancora.
E fu tutto. Lo lasciarono in mezzo al campo di grano e alle spighe calpestate, in mezzo alla notte illune e al suo sangue versato.
Prima di morire aveva urlato perché. Perché gli avevano dato quell'appuntamento. Perché in quel luogo di fatiche contadine, di amori furtivi e spiati. E perché lui l'aveva accettato. Ma è inutile cercare di capire perché si vive o si muore. Le nostre domande e speranze, le rincorse e le fughe, le promesse e gli addii, tutto quanto si adempie nella morte. Anche una vita mal spesa.
«Pronto, Polizia? Venite, c'è un omo morto ammazzato nel mi' podere, sotto l'Argine dell'Arno per anda' ar Ponte alla Navetta.»
La telefonata era arrivata Sabato, di primo mattino, dopo che il contadino era sceso in campo e aveva trovato il cadavere. Il commissario Favati e l'ispettore Calogero si recarono sul posto. Bella la campagna, una bionda distesa di maggesi che a giugno sarebbero stati trebbiati. Ondeggiavano nel vento leggero. La Toscana dava il meglio di sé. Di là dall'argine, dove lento scorreva il fiume, un po' meno. Un tempo, cantava Narciso Parigi, era d'argento e ci si specchiava il firmamento. Un tempo.
«Dalla finestra di 'amera mi pareva d'ave' visto de' sorchi nel grano che dice li fanno l'alieni, i marziani, insomma. O anche il ghiavolo. E invece son ma de' bischeri nostrali a falli! Belle mi' legnate!» spiegava il contadino. «Così sono venuto a vedè. Pover'omo! E quanto grano sciupato!»
«Che ore erano, se lo ri'orda?»
«Ma?! Saranno state le sette; nemmeno.»
«E stanotte avete sentito niente, stanotte? Che so: de' rumori?»
«Macché! Si fati'a tutto 'r giorno, si va a letto co' polli e si dorme sodo, noi. Sì, i cani mi pare d'avelli sentiti abbaià, ner sonno, ma 'un gli s'è dato retta: sentano le bestie, enno 'nquieti, si tengano legati. E poi son cani, abbaiano, se eran tenori cantavano l'opera. Magari se era sempre viva la mi' po'era moglie, lei il sonno l'aveva leggero...»
«Va bene, va bene. Si tenga a disposizione.»
«Dove vol che vada? Sor commissario, tutto quel sangue sul grano che ci viene il pane, 'un mi garba punto. Porta male. Ma siamo si'uri? Che disgrazia!»
Il commissario, quando sentiva la fioca e strascicata parlata toscana, rompeva il protocollo e si adeguava al dialetto. Era il suo. Il contadino aveva alluso ai "crop circles", i cerchi nel grano, un fenomeno, nato in Inghilterra, che aveva preso piede anche da noi. Apparivano dal giorno alla notte, anzi, dalla notte al giorno, dei solchi, dei cerchi "magici" nei campi di grano che, visti dall'alto, rappresentavano disegni, figure geometriche, anche complesse. Venivano attribuiti dalla fervida fantasia popolare all'atterraggio di astronavi aliene e alla visita di extraterrestri. C'è chi riteneva si trattasse di messaggi spirituali, moniti lanciati all'umanità contro la distruzione delle risorse della terra. Addirittura qualcuno cercava di ricondurli alla storia del "Diavolo Mietitore", un libello inglese del 1600. Oppure sarebbero stati prodotti da astruse diavolerie scientifiche.
In realtà si trattava dell'opera di qualche performer o di burle di buontemponi. Senza arrivare necessariamente alle legnate, aveva ragione il nostro disincantato contadino. Nel caso in questione, poi, l'azione dell'uomo, non meno maligno del demoniaco mietitore, era evidente.
Un delitto efferato, diciassette coltellate, distribuite in tutto il corpo, ma concentrate sopratutto nella zona pubica. I fendenti erano stati calati da una sola mano, ma, dai segni sul corpo della vittima, altri, almeno due, dovevano aver tenuto fermo il malcapitato.
S'indagò nella vita dell'uomo ucciso, un trentanovenne del posto. Si sapeva che prestava soldi a strozzo, lo dicevano tutti in città. E che bazzicava ambienti di gioco d'azzardo e malaffare. Fu l'ispettore Calogero a trovare tra le sue carte, in fondo ad un cassetto, un libriccino.
«Commissa', guardi ?!»
«Che c'è, Calò?»
«Un elenco di nomi con delle cifre accanto, sembra un registro!»
«Quanti sono, contali, fammi vedere.»
«Diciassette, commissa', sono diciassette.»
«Come le coltellate, Calò, come le coltellate!»
"Te
possino dà tante
cortellate
pe’ quante messe ha dette l'arciprete
pe’ quante messe ha dette l'arciprete
pe’ quante vorte ha detto orate frate
Lara lallara lallara lallalàLara lallara lallara lallà…
Me sa
mill'anni che se facci notte
p'annà da solo via da
questa parte
p'annà da solo via da
questa parte
m'è venuta la smania della morte"
«Bella voce tenete, commissa'.»
«Sono stornelli romani, li cantava Gabriella Ferri.»
Alcune delle voci del registro non era possibile capire a chi corrispondessero realmente, altri nomi invece sì e queste persone furono interrogate, ma non emerse niente se non la loro vergogna e il senso del disonore della vita. Erano vittime e si sentivano colpevoli. Povera gente.
L'uomo aveva anche fama di sciupafemmine, una fama alquanto usurpata, perché non disdegnava nemmeno più ambigue frequentazioni. Al tempo così si diceva. Insomma un "ambidestro". Quei colpi nel basso ventre sembravano indicare un movente passionale: la vendetta di un marito o di un amante tradito. Forse era stato attirato ad un appuntamento galante e torbido proprio dai suoi assassini, quel dannato venerdì diciassette di maggio.
In tasca, tra l'altro, gli furono trovati dei santini e la lettera di un prelato: parlava di certi incontri "giovanili" e sembrava di capire che non era catechismo. Il sacerdote, interrogato, negò ogni addebito, dichiarò che si trattava di mendacium e minacciò querele. In effetti non fu possibile riscontrare alcun collegamento con i fatti in questione. Una cortina clericale si frappose alle indagini. "Nisi caste saltem caute". A distanza di un anno, il religioso fu rimosso dall'incarico e sospeso a divinis.
Il commissario brancolava nel buio, pressato dalla Questura, incalzato dalla stampa. Non ne veniva a capo. Troppe piste e poche prove. Il movente passionale, il mondo dell'usura, l'ombra della pedofilia di sacrestia. E poi quella maledizione ricorrente del numero diciassette. La sua mente girava a vuoto nei cerchi concentrici dell'indagine, indecifrabili, come i cerchi nel grano. Si profilava all'orizzonte il mortificante disappunto dell'archiviazione. Fu il fido Calò, ancora una volta, forse senza volere, a indicare una strada.
«Si è fatta grande e bella, me la ricordavo piccola: a scuola, con mia figlia, facevano la stessa classe»
«Chi?»
«La figliola del contadino, ieri sono stato alla fattoria a fargli firmare una deposizione. C'erano tutti. La tiene sempre in casa. Si vergogna. È incinta»
«Calò, quanti anni ha tua figlia?»
«Diciassette, perché?»
Il contadino, suo fratello e il figlio maggiore, sotto torchio, confessarono. Quel porco pervertito, strozzino, delinquente e baciapile, la bambina non la toccherà mai più. Peccato per il grano.
Marco Celati
Pontedera, Venerdì 17 Febbraio 2017
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Questo racconto, il primo scritto sul terrazzo e sotto il sole meridiano di città, si deve ad una confusa memoria. Qualche anziano, non rammento più chi, mi raccontò di un delitto, avvenuto nel dopoguerra, all'incirca nei luoghi descritti, con simili modalità. E mi pare ci fossero alcuni degli elementi narrati, perfino qualcosa a che fare con un prelato. Chi me l'ha raccontato chissà se c'è ancora e chissà se ancora il mio cervello è in grado di ricordare e distinguere. Ovviamente tutto il resto è di mia invenzione e ogni eventuale riferimento è puramente casuale. Il delitto rimase insoluto.
Marco Celati