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venerdì 17 gennaio 2025

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Il muro di Baj

di Marco Celati - mercoledì 04 dicembre 2024 ore 08:00

Ho partecipato alle iniziative promosse dal Comune di Pontedera per celebrare i cento anni della nascita di Enrico Baj. A Pontedera in via del Risorgimento, lungo la ferrovia, si trova il grande mosaico all’aperto, raffigurante i “Meccani”, utilizzati dal celebre artista per le sue opere. Il “Muro di Baj”.

I bozzetti del Muro, inizialmente depositati nel caveau della Tesoreria comunale, in seguito incorniciati ed esposti al Centro Otello Cirri, in Via della Stazione Vecchia, sono stati collocati presso il PALP, il Centro per l’arte del Comune, in Piazza Curtatone e Montanara, in una stanza inaugurata in occasione del centenario. Enrico Baj era nato a Milano nel 1924. Il meccano, tempo fa, era un gioco per noi bambini, e forse lo è stato anche per lui.

Ma cominciamo dal principio. Davanti alla piazza Garibaldi, allora sterrata, stava la dolente e dolce Pietà laica di Loris Lanini, affossata tra dolorose lapidi marmoree e cinta da tetre catene. Tuttavia ciò che faceva davvero pietà, dietro a quel monumento ai caduti di tutte le guerre, era il muro della ferrovia. Una recinzione cementizia, squallida e cadente, oltre cui spuntavano canneti, cespugli ed erbacce che si arrampicavano sul terrapieno della ferrovia, divisivo, incombente sulla città. Non so se, come scrive Dostoevskij, il bello salverà il mondo. Forse il bello e il giusto insieme, lo faranno, contro l’utile che imperversa. Però di una cosa sono certo: che il brutto ci condannerà. Perché il brutto accompagna spesso e volentieri, il degrado e l’ingiusto. E il muro della ferrovia, al brutto -e aiutatemi a dire brutto- dava il suo considerevole quanto deprecabile contributo.

Conosco coloro che, attraverso l’opera di Baj, trasformarono quel muro in un capolavoro di arte contemporanea. Solo che per me la memoria è ostica, sostengo più il diritto all’oblio: personalmente penso sia meglio essere dimenticati che ricordati male. E dimenticare più che ricordare male. Gli antichi greci avevano diverse definizioni del tempo, in particolare due: chronos, la dimensione quantitativa, la cronologia degli eventi, e kairós, il senso qualitativo, il momento, il significato dello scorrere delle cose. Seguo più la seconda definizione, anche perché così posso bluffare meglio con la mia smemoratezza, naturale o assecondata, che confonde, accatastandoli, anni e avvenimenti. Per quello che si sa la prima idea vaga di affidare il muro della ferrovia alla mano creativa di un artista e in particolare ad Enrico Baj, fu di Riccardo Ferrucci, allora responsabile dell’Ufficio Cultura del Comune di Pontedera.

In verità il Muro di Baj è stata un’opera corale e condivisa. Assomiglia a quelle chiese che nel Medioevo si costruivano da sole, nel senso che tutta la comunità contribuiva alla loro realizzazione. Baj piaceva a Tommaso Fanfani, Presidente della Fondazione Piaggio, professore universitario, indimenticabile amico della città, che voleva proporgli una mostra al Museo. Piaceva al Sindaco di allora che l’aveva visto raffigurato -questo mi ha detto- nei cataloghi d’arte alla tipografia Bandecchi & Vivaldi, quando ci andava per i manifesti dell’Arci, negli anni ‘80. Lui dice anche che era rimasto estasiato quando vide, alla Curtatone, i quadri dei pittori contemporanei, in occasione del Premio Italia, così pensa si chiamasse quella manifestazione, curata da Dino Carlesi. Ma era un ragazzo e non se lo ricorda bene. Quel premio non si fece più, molte cose furono considerate sorpassate dall’irresistibile movimento del ‘68. Chissà che ricchezza avrebbero trasmesso alla città! E forse ora lui -non pentito, solo più maturo- cercava di rimediare, riannodare il filo spezzato, ritessere una trama. Ma queste sono solo mie impressioni e lasciano il tempo che trovano. Baj piaceva anche alla vulcanica Assessora alla cultura e pubblica distruzione, Daniela Pampaloni, Preside, motivata quanti altri mai. Perché l’arte di Baj, così innovativa e giocosa, poteva bene essere impiegata per un percorso originale, educativo e didattico. E lei era proprio brava! Baj piaceva infine all’Architetto Bartalini, esteta e amante del bello, dell’effimero e dell’arte. Alberto, per il Muro è già rammentato nell’Enciclopedia Treccani -scusate se è poco- e con la storia e la gloria è già un bel pezzo avanti. Lunga vita! Grazie a tutti loro fu concepito il “Cantiere Baj”, un progetto complessivo di arte, attività espositive, educazione. Se è consentito non usare mezzi termini possiamo dire: cultura, sapere e conoscenza. Trasformazione. Ma sfuggiamo alla tentazione e all’insidia del mito e torniamo al chronos.

Erano già stati installati il “Toro” di Pietro Cascella, in Piazza Curtatone nel 2001, e nel 2002 la “Ragazza in piedi” di Giuliano Vangi, sul Corso, in Piazza Cavour, dopo le rispettive mostre dei due artisti al Museo Piaggio. Il modulo -mi diceva il Sindaco- era questo: scegliere “Maestri”, mettere a disposizione la sala espositiva del Museo Piaggio, in accordo con Tommaso Fanfani, e quella Comunale intestata ad Otello Cirri, chiedendo loro un’opera che rimanesse alla città, disponibili anche ad acquistarla, purché ad un costo accessibile, per arricchire il patrimonio artistico di Pontedera, da lasciare a quelli che verrano dopo.

Con questi auspici partì alla volta di Vergiate, provincia di Varese, Lombardia, l’auto del Comune con a bordo Sindaco, Assessora e Riccardo Ferrucci. Si era agli inizi del 2002. A Vergiate, immersa nel verde, si trovava la casa, il “buen retiro” di Enrico Baj e la moglie, Roberta Cerini, che li accolsero con gentilezza e semplicità. Questa almeno fu l’impressione unanimemente riportata dai “nostri” visitatori. I quali raccontano che entrare in quella casa procurò loro un effetto da “Sindrome di Stendhal”, uno stordito rapimento di fronte a tanta bellezza esposta. Opere del Baj e di altri artisti riempivano le stanze, quadri istoriavano le pareti fino al soffitto, non c’era uno spazio di parete libero. Una roba da togliere il fiato! Il Sindaco -con cui, si è capito, avevo confidenza- mi confessò che chiese del bagno. Era stato un lungo viaggio, almeno per lui. Anche nel bagno le opere d’arte, pittoriche e scultoree, erano ovunque, tanto che si peritava ad usarlo: sarà sacrilegio? Pensava. Poi la natura ebbe il sopravvento sull’arte e tutto fu compiuto. Dopo una piacevole conversazione furono introdotti al laboratorio sul retro e di fianco alla villa. E qui, raccolti, c’erano i ferri del mestiere di Baj, che erano colori, scatole di bottoni variopinti e d’oro, un caleidoscopio di tessere di mosaico, e antiche medaglie, fibbie, passamanerie, stracci, tubi idraulici, una bottega artigiana, un mercato!

Questo era lo strabiliante assemblamento di oggetti con cui Baj aveva composto e componeva i suoi Generali, i suoi Meccani, le sue Dame, i Fiumi o le Fiumesse, che erano in realizzazione o dovevano essere stati composti da poco. Infatti nel catalogo della mostra “Baj chez Baj” attualmente in corso a Palazzo Reale a Milano, in cui campeggiano “I funerali dell’anarchico Pinelli”, i Fiumi sono etichettati “Archivio Baj” e datati 2002. Il Sindaco ricorda che allora vide in allestimento la Neva, il fiume: peneri, stracci e cordoncini bianchi per il corpo, tubi idraulici e pulsanti a comporre il volto. Oltre all’impressione che ricevette, se lo ricordava bene perché la Neva, così si chiamava, era la mamma del Borchi, un amico a cui il giorno dopo disse: Franco, Baj ha fatto il ritratto alla tu’ mamma! Santa donna, fu la risposta.

Baj era interessato ad esporre al Museo Piaggio e trovò buona l’idea del Muro, riservandosi di pensare e definire una possibile realizzazione. Come si sia arrivati alla proposta di fare sul muro un mosaico con i Meccani, sta nella poetica e nella fantasia creativa di Baj, alimentando a Pontedera perfino leggende metropolitane. Fatto sta che quella fu la proposta: figure meccaniche antropomorfe, una rappresentazione trasgressiva, anarchica e drammatica, già utilizzata dal Maestro per denunciare i meccanismi, mostruosi, ottusi e oppressivi del nostro modo di vivere. Però un’immagine gioiosa, divertita quasi. Libertaria. Sarà un grande mosaico colorato: lungo cento metri e alto poco meno di tre. Non male per una città metalmeccanica.

Ci furono altri viaggi a Vergiate per prendere i bozzetti. Baj venne a Pontedera a visitare il Museo Piaggio e ne rimase colpito: allestirò una mostra appositamente per questo spazio di lavoro, così suggestivo ed evocativo, sembra abbia detto. E così è stato. Baj lavorò ai bozzetti del Muro e li completò. Poi, improvviso, il dramma. Il Sindaco mi ha raccontato, commosso, che il 15 giugno 2003 gli arrivò in Comune un fax firmato dal Maestro che annunciava il completamento del progetto e dava indicazioni circa la sua realizzazione. È stata la sua ultima opera, il suo ultimo pensiero artistico. Il giorno successivo, il 16 giugno 2003, Enrico Baj muore. Fu la moglie, Roberta, a curare e portare avanti le sue proposte.

La mostra di Baj si tenne, postuma, al Museo Piaggio nel 2004. Se non ricordo male -e andrebbe verificato, perché ricordo spesso male- da Luglio a Settembre. Fu davvero un’esposizione ben curata ed originale. Si passava tra i Meccani, riflettevamo negli specchi spezzati la nostra stessa immagine atomizzata, entravamo nell’opera d’arte e ne uscivamo interi. Era esposto anche il bozzetto iniziale del Muro. In parallelo, al Cirri si svolgeva la mostra delle maschere e dei totem di Baj da cui si snodarono le attività didattiche, rivolte alle scuole. Nel frattempo si trattava di stabilire con quale tecnica musiva si sarebbe dovuto realizzare il mosaico. E qui entrò in scena l’architetto Bartalini. Alberto accompagnò il Sindaco nel Veneto, alla Bisazza, una grande azienda che realizzava mosaici per interni ed esterni. Fecero dei prototipi: con i loro processi industriali si sarebbe risparmiato tempo e denaro. E questa cosa, che l’immaginifico architetto pensasse al risparmio del Comune, disse il Sindaco, era una notizia assoluta. Però il risultato era piatto, troppo uniforme, non restituiva la vivacità del bozzetto. Roberta Cerini Baj bocciò la proposta e propose la Novamosaici, un’impresa artigiana con cui Baj ed altri artisti avevano già lavorato. Furono fatti diversi viaggi a Bollate, nell’hinterland milanese, alla sede della Novamosaici che consegnò dei lavori dimostrativi che oggettivamente erano considerati buoni, facevano risaltare, con un vero e brillante opus incertum, l’opera di Baj. Al “Laboratorio Novamosaici dei Fratelli Toniutti” fu dunque affidata la messa in opera.

Nel 2004 iniziarono i lavori. Bartalini fu importante per la realizzazione dei giunti di dilatazione. Un mosaico di quelle dimensioni sente e subisce il variare delle condizioni climatiche, si dilata, si restringe, e su questo movimento avrebbero inciso anche le vibrazioni dovute al passaggio del treno. Quindi, un po’ come per i ponti, occorreva dividere l’opera. Bisognava fare in modo che non si determinassero separazioni o sovrapposizioni delle tessere tra loro. I giunti allora furono disegnati, non in linea retta, verticale, ma seguendo le figure dei Meccani. Questo rese le divisioni del mosaico impercettibili, a tutto vantaggio della sua visione lineare e continua. Altra decisione dell’architetto fu la cimasa che correva lungo il Muro. Niente era previsto dal progetto originale, ma quella striscia continua di grigio cemento opprimeva l’opera. Così fu deciso di rivestirla di un mosaico azzurro che ravvivò ancor di più la felice brillantezza del Muro. Nel contempo fu risistemata la restante porzione del muro non occupata dal mosaico e realizzata una “quinta” di piante verdi sul retro, a coprire il terrapieno della ferrovia. Una degna scenografia, pronta ad accogliere il Muro che, nel 2006, finalmente fu ultimato.

Così arrivò il giorno tanto atteso dell’inaugurazione, mi pare fosse dicembre, la sera il Muro illuminato era uno spettacolo. Palchetto allestito davanti all’opera, presenti Roberta Cerini Baj, autorità e un buon numero di cittadini, tra cui il sottoscritto. Il Sindaco al microfono prende la parola, iniziando a ringraziare i presenti e rendicontare l’impegno del Cantiere Baj, giunto a compimento con la realizzazione del mosaico ad opus incertum, la più grande installazione artistica d’Italia a cielo aperto. Sennonché non c’è mai stato niente di più incertum dell’impianto di amplificazione del Comune di Pontedera che ad un tratto, inspiegabilmente, si spense e l’intervento proseguì a voce viva ed urla inaudite nel rumore del traffico della piazza antistante. Il Sindaco mi ha confessato che trattenne a stento improperi e accidenti -o forse peggio, conoscendolo- e avrebbe voluto scomparire, essere inghiottito dal Muro, diventare una figurina meccanica con fascia tricolore, immersa, raffigurata, eternata nel mosaico di Baj. E sarebbe stata la giusta espiazione e forse un onore.

Ma non siamo a qui a ricordare solo gli “insuccessi”. Oggi quel muro è diventato un simbolo della nostra città. Il Sindaco ricorda ancora, con commozione, Franco Luperini, consigliere anziano del Comune, che in occasione del premio letterario Identità, intestato a Giovanni Gronchi, gli fece vedere la targa consegnata ai premiati che raffigurava il Muro di Baj. Il primo cittadino mi disse che avvertì perfino una punta di malcelata e imbarazzata fierezza. Le critiche sono inevitabili, nel senso che fanno parte della democrazia che non è mai la dittatura della maggioranza. Qualche sgarbo ci fu, tessere divelte o raccolte. Poca roba, però. Le Amministrazioni Comunali successive sono intervenute con la necessaria manutenzione. La sostanza è che a Pontedera abbiamo accolto il Muro, è un’opera nostra e resiste al tempo e nel tempo. Pontedera non sarà mai una città d’arte, ma può essere una città che accoglie l’arte, la cultura, così come si occupa della scuola, del sapere, della ricerca, del lavoro, della manutenzione e della pianificazione urbana. Oggi davanti a quel Muro c’è una Piazza Garibaldi che nel 2005 è stata pavimentata in porfido, arricchita da Panchine d’Artista, che vanno difese dall’ingiuria amanuense di giovinastri incivili. La Pietà del Lanini è stata rialzata, liberata da marmi, le catene sollevate dalla Colomba della Pace di Nado Canuti.

E infine dobbiamo ricordare una persona, Marcello Mosti. Chi era? Un imprenditore edile, un costruttore che aveva a che fare con cemento e mattoni. Un artigiano che trovava il tempo per assecondare la sua passione per l’arte: raccoglieva piastrelle spezzate, marmi e materiali vari di risulta che assemblava, componendo panchine sul modello delle opere del Parc Güell di Gaudí a Barcellona. Tre ne ha donate al Comune e sono state collocate sotto i grandi cedri a fianco della Curtatone, davanti al Muro di Baj con cui interfacciano meravigliosamente. Perché rammento questa cosa? Perché sono tra coloro che pensano che Pontedera sia questo. Gente operosa e brusca, attenta al lavoro, che non disdegna cultura ed arte, anzi se ne appassiona, magari senza darlo troppo a vedere. Non saprei definire la mia città, che è cambiata nel corso del tempo, se non così, con queste parole.

Esagero con la prosopopea e mi prendo in giro da solo. John Kennedy disse a Berlino, davanti al muro della divisione e dell’orrore da abbattere, che: “se duemila anni fa il più grande orgoglio era dire: civis Romanus sum, oggi nel mondo libero il più grande orgoglio è dire: ich bin ein Berliner!”. Io sono berlinese e intendeva, siamo tutti berlinesi. Liberamente e più modestamente, davanti al Muro di Baj, l’unico muro non divisivo che è lecito innalzare, noi possiamo dire: siamo tutti pontederesi. Sì, tutti pontederesi, intanto perché non ci sono pontaderesi e pontederesi. E non solo perché sulle carte geografiche antiche non si trova solo l’iscrizione Pons ad Heram, ma anche Pons Herae. Dove la lettera “h” è spesso facoltativa. E poi l’alliterazione delle “e” nella lingua parlata ha fatto il resto: si pronuncia meglio Pontedera e pontederesi che Pontadera e pontaderesi. Per cui la dizione su Wikipedia, relativa al nome degli abitanti, pontaderesi (coloro che ci sono nati); pontederesi (coloro che ci vivono ma che non ci sono nati)” -testuale- ancorché avallata da citazioni, è una bischerata, venata, se non fosse ridicola, di proto razzismo.

Inoltre, perché giova anche ricordare che le mura del nostro Castello venivano di continuo innalzate e abbattute nelle guerre medievali tra Pisani e Fiorentini. Le mura per un Castello erano una difesa dalle aggressioni e dalle malattie. La popolazione di Pontedera, o come diavolo si chiamava allora, venne decimata e il Castello rischiava di rimanere deserto. Così nel 1454 la Signoria di Firenze ordinò a cento famiglie di Camporgiano e altrettante di Albiano e Caprignola di trasferirsi a Pontedera per ripopolare la zona, concedendo loro esenzioni fiscali. Non è che non ci furono problemi, però la cosa andò a buon fine e se ci sono ancora cittadini di Pontedera -che in italiano si scrive proprio così- è perché vennero dei forestieri a integrarsi con la nostra cittadinanza. Quasi stranieri, in fondo. Lunigianesi e garfagnini erano genti latine, romaniche, di varia estrazione e diverso dialetto, ibridate, tra gli altri, da una popolazione di origine germanica dalla lunga barba, i Longobardi, i quali scendevano dall’attuale passo della Cisa, il Mons Longobardorum o Monte Bardone. Siamo stati antesignani di una città inclusiva. Perfino San Faustino, il patrono di Pontedera, con tutta probabilità era un migrante.

In seguito, nel 1554, il perfido Marchese di Marigliano ordinò la distruzione delle mura di Pontedera, non stiamo qui a raccontare come mai, che ci stiamo già troppo dilungando. E, gira e rigira, a dimostrazione che non tutto il male, né tutta la Storia e gli storici vengono per nuocere, fu la nostra fortuna. Pontedera divenne un Comune a forte vocazione commerciale. Ottenne nel 1471 una Fiera annuale e nel 1546 un Mercato settimanale. Quasi una città aperta, si direbbe oggi, di certo non un Castello chiuso tra mura. Tant’è che l’ultima porzione di mura medievali e la rocca dell'XI secolo, esistenti vicino all'attuale Piazza Cavour, vennero ritenute un ostacolo allo sviluppo delle attività commerciali e quindi distrutte nel 1846 dal Granduca Leopoldo, detto “Canapone”, su richiesta dei commercianti locali.

Di conseguenza anche coloro che frappongono, o frapponevano, industria a commercio, come ragion d’essere della città, tra cui l’ineffabile sottoscritto, si devono ricredere. Si tratta di un’altra bischerata. Quantomeno di contrasti artificiosi. La storia è più lineare. La natura mercantile di Pontedera, agevolata dalla sua situazione aperta e dalla sua posizione favorevole, dette luogo a commerci, mercati e fiere di beni primari, agricoli: buoi, galline, conigli, anzi coniglioli. E allo sviluppo delle attività di trasformazione: pastai, funai, tessitori, tintori. I miei illustri avi, vissuti tra settecento e ottocento, erano funaioli, uno era soprannominato “Canapino”, perché più modesto rispetto al Granduca “Canapone” o perché lavorava la canapa. Nel 1903 si costituì il Consorzio Agrario Cooperativo con un’officina di assistenza tecnica e riparazione di macchine agricole che nel 1915 dette vita alle Officine Meccaniche Toscane. Nel 1923 la società assunse il nome di Costruzioni Meccaniche Nazionali, iniziando la produzione di macchine e motori. E nel 1924 arrivò la Piaggio che acquisì le Officine per la sua espansione in Toscana. Qui trovò imprenditori e lavoratori già formati, un territorio competitivo.

Siamo città per questo e non tanto e non solo perché per Regio Decreto, sollecitato da un gerarca fascista concittadino, nel 1930 ce ne venne assegnato il titolo. Sarebbe un ragionamento apodittico, una tautologia, dire che siamo città perché ci hanno designato così. Chiediamoci semmai perché ci hanno dato questo titolo. Io penso perché siamo, pur entro limiti, una città, ne abbiamo la conformazione urbana. Non siamo un castello o un paese chiuso tra mura. E siamo donne e uomini che lavorano e vivono, abbiamo e acquisiamo lo spirito della città. L’80% degli edifici furono distrutti dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, ma la città risorse, risorsero le scuole, le fabbriche. In diecimila e oltre trovarono impiego alla Piaggio, molti della città che allora si poteva dire operaia. E quella città operaia pensò al Teatro popolare in Piazza, all’Autunno Pontederese, al Premio di Pittura Italia, al Piccolo Teatro di Pontedera, alla Biblioteca Comunale, all’istituzione del Ginnasio e del Liceo. Elenco in ordine sparso e forse parziale. E dal 1946 al ‘52 abbiamo avuto Sindaco, Otello Cirri, un maestro, un comunista, un valente pittore impressionista che dipinse gli Evangelisti nell’abside del Duomo. Da questo humus culturale sorsero, negli anni avvenire, il Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, il Certamen, Sete Sois Sete Luas, il Circolo cinematografico Agorà. E via e via fino ai giorni nostri.

Altre opere d’arte sono state installate e tutte vanno custodite con cura. Nel 2005 “Oleandra” di Arturo Carmassi presso la rotatoria della Bellaria e “Origine Vespa” di Mino Trafeli in Piazza Stazione; nel 2008 “Ulisse e le Sirene” di Sergio Zanni e il cancello artistico presso il Teatro Era di Nado Canuti che realizzò anche le sedute in piazza Andrea da Pontedera nel 2009. Nello stesso anno l’opera in acciaio inox, “Le Tre Grazie”, donata da Dolfo e situata sulla rotonda di via Vittorio Veneto. E ancora tra il 2009 e il 2015 le sculture metalliche, donate da Simon Benetton, che sono state collocate in vari luoghi della città. Poi “La Melagrana” di Giuseppe Carta, installata nel 2018 sulla rotatoria tra viale Asia e la Tosco Romagnola. Molte sono state le attività espositive e le installazioni provvisorie. Sta agli amministratori pubblici intervenire con oculatezza ed equilibrio, specie in tempi difficili come quelli odierni, ma c’è da augurarsi che le iniziative proseguano e si dia seguito al lavoro iniziato, che sennò sarebbe servito a poco.

Le trasformazioni hanno cambiato Pontedera, però le complessità per cui era ed è città, pur mutate, rimangono. Noi siamo, per storia e formazione, un complesso di cose: lavoro, società, sapere, cultura. Sbaglia chi contrappone un aspetto ad un altro: pontaderesi o pontederesi, sociale o cultura, industria o commercio, progettazione o manutenzione e chi più ne ha, più ne metta. Siamo cittadini di una città di commerci, officine, sapere, con un’anima, che per questo si è fatta città. E custodisce una complessità che ha bisogno di risposte altrettanto complesse e non contrapposizioni sterili o speciose e nemmeno soluzioni semplici e spesso parziali o sbagliate. Materia e spirito, testa e cuore e anche l’arte sta in questo percorso. Resilienza e oltre. La resilienza viene descritta come la proprietà di un materiale, vivente e non, di tornare allo stato originale dopo una sollecitazione, una perturbazione, un evento traumatico. Sembra una cosa meccanica. Sul Muro c’è scritto “La pittura è una via, una via che ho scelto verso la libertà. È una pratica di libertà. baj. Si firma con la minuscola ed è stato uno grande. Ma noi non siamo automi, meccani, sembra ammonirci. Allora è questa la consegna alle nuove classi dirigenti. Possiamo e dobbiamo andare anche oltre la nostra situazione originaria, avere un progetto, avere visione, coraggio, opporci al declino, scongiurarlo, portare la città, i suoi cittadini, i giovani e i nuovi, a frequentare il futuro.

Marco Celati

Pontedera, Dicembre 2024

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“Sic vos, non vobis”

Questi versi io composi, ed altri ne trassero onori;/ così voi, ma non per voi, fate il nido, uccelli;/ così voi, ma non per voi, portate il vello, pecore;/ così voi, ma non per voi, fate il miele, api;/ così voi, ma non per voi, portate laratro, buoi. Virgilio

Marco Celati

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