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lunedì 09 dicembre 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Memòrias

di Marco Celati - martedì 26 settembre 2023 ore 09:00

Aveva messo da poco una veranda sul terrazzo e sedeva al riparo dal sole, sulla sdraio, a guardare il mare. Era un’alternativa alla panchina sul porto, dopo che Perez, il capitano di Mindelo, gli aveva ripetuto: commissario Favati, non stia sempre su quella panchina il pomeriggio, può attirare malintenzionati! È già successo, e poi che ci sta a fare? E lui gli aveva risposto: capitano, a parte che ci si dava del tu, su quella panchina aspettavo Pilar e ora che non c’è più, aspetto la sera e che vi decidiate a liberare Dores, la mia amica “montaliana”. Lo sapete che è innocente, non è lei che ha ucciso quel poeta da strapazzo, a Salamansa, il damerino fedifrago… Al che il capitano taceva: le indagini facevano il loro corso, o almeno si spera.

Chi sta sulle isole in mezzo all’Atlantico sente due cose: di essere confinato in un lembo di terra, perché alla terra si resta attaccati, e di essere infinito come l’orizzonte, perché l’orizzonte ti resta negli occhi. L’arcipelago di Capoverde era questo: isolamento e spazio, e ogni giorno questo mare sconfinato e questo cielo aperto. Perciò il commissario l’aveva scelto come buen retiro dopo la pensione, per i restanti anni della vita. E così si sentiva. Gli Alisei, venti propizi alla navigazione e al sogno, facevano il resto. La vita è fatta di sensi e di ricordi: fissava le acque calme del vecchio porto e la baia gli sembrava un lago con i pontili, le barche ormeggiate, gli uccelli pigri in volo ad ali spiegate.

Era un lago. Era stata una vecchia cava, una ferita inferta alla terra, che la natura si era ripresa e ne aveva fatto uno specchio d’acqua, alimentato dalle piogge e dal fiume. Era stato tanto tempo fa. Di fianco al Lago si ergeva una casa, stretta, verticale, di un colore elettrico inquietante, con tre tetti spioventi, e due finestre, accese all’imbrunire come occhi maligni. Una casa gotica che incuteva timore. Stava nella radura, in prossimità del lago, davanti agli arbusti invasivi del bosco, un tempo un gran parco, che cingeva una storica villa settecentesca. Aveva fama di una qualche, non ben precisata maledizione, ma forse era la zona che la sera non aveva una reputazione troppo raccomandabile: giri equivoci, droga, nella foschia, tra le brume lacustri. Oppure erano solo voci inventate, impaurite e maldicenti.

Chi la costruì sembra avesse inizialmente chiesto di ampliare ed adattare una vecchia colonica, annesso rurale della villa. Ricevuto il diniego alla ristrutturazione dal Comune, il proprietario non si rassegnò e chiese il permesso a costruire ex novo, di là dal confine della tenuta, pochi metri, ma sufficienti ad entrare nella giurisdizione di un altro Comune che concesse l’autorizzazione. Un pasticciaccio. Così, prospiciente al parco, alla villa e dirimpetto ad una costruzione agricola di pregio, sorse, sul Lago, la nuova casa che fu fatta tinteggiare di un viola fluorescente, forse a rimarcarne l’evidenza, in segno di affermazione e in barba ai vincoli imposti. A volte troppa rigidità è eccessiva: nella stalla stanno le bestie, gli uomini sono altri animali e hanno bisogno di spazi e aperture diversi per vivere. Ma anche l’eccesso di concessioni e permissività è deleterio per la storia e la natura. Il nostro paesaggio. E un buon compromesso ci resta difficile. Forse perché abbiamo introdotto una cesura tra storia e futuro e tra futuro e natura.

Il commissario invece la cesura l’aveva introdotta fra presente e realtà. La memoria gli giocava brutti scherzi. Dove si trovava, a Capoverde in pensione o ancora al lavoro in Italia, in Valdera? Aprì per un attimo gli occhi e li richiuse: si erano fatti pesanti come la vita, come il tempo che passa e confonde le cose. Quella sera d’autunno in Questura arrivò una telefonata, una voce anonima avvertiva che in una casa, la casa vicino al Lago, c’erano state delle grida terribili e ancora si udivano lamenti e di fare presto, venire! In ufficio, a fine turno, oltre a lui c’era solo l’ispettore Calogero, il fido Calò. Presero la macchina e si diressero al Lago.

⁃ Commissà, che faccio, metto la sirena?

⁃ No Calò, niente sirena, meglio non fare baccano: guida veloce, ma con prudenza.

⁃ Chiamiamo rinforzi?

⁃ Aspetta, vediamo di che si tratta, magari è uno scherzo.

⁃ Lo sa, vero, commissà, che quella casa deve essere abbattuta? Pare sia abusiva!

⁃ Lascia stare, Calò, l’urbanistica è un affare complicato, non è roba per noi, noi ci occupiamo di altri delitti, questi lasciamoli alla politica che è meglio…

⁃ E lo sa chi ci sta in quella casa? Un pezzo grosso, un architetto, vecchia gloria del calcio…

⁃ Lo so Calogero, lo so, non lo sapessi, ma lo so.

⁃ Era per dire…

⁃ L’hai detto; andiamo.

Quando Calogero dava il lei era per comunicare qualcosa da cui guardarsi, per avvertire, mettere le mani avanti. E quando il commissario lo chiamava Calogero, e non Calò, era per segnalare impazienza, preoccupazione, tensione. C’è tra persone che si conoscono bene un tacito modo di intendersi, oltre le parole, retaggio atavico di quando ancora non parlavamo o segno di amicizia.

Arrivarono al Lago che era già buio. Presero il sentiero lungo la riva, fra le canne palustri e le siepi. Un salice piangente oscillava al vento, i rami cadenti lambivano l’acqua scura. I salici sono piante acquatiche. Il fruscio di qualche bestia, il lamento lugubre di un uccello, un altro che si alza in volo. Dalla superficie del Lago si levava una foschia nebbiosa, il luogo aveva un aspetto sinistro. Si avvicinarono alla casa curvi, al riparo della siepe, impugnando la pistola d’ordinanza. La casa con quel colore irreale si stagliava nell’oscurità. Appariva lugubre, spettrale nella notte, senza stelle né luna. Alla finestra una luce andava e veniva, con il brusio di un neon guasto. Uno strano isolamento incombeva, come una sospensione delle cose, il buio, la notte ferita, la nebbia che saliva dal lago. Guardinghi arrivarono sotto il portico. La porta era chiusa, ma l’ispettore era un mago del passepartout: armeggiò un po’ con i suoi arnesi e sbloccò la serratura. Si appiattirono al muro, uno a destra, l’altro a sinistra dell’ingresso, le armi rivolte a terra, tolta la sicura. Un cenno d’intesa, in silenzio, entrarono, le pistole puntate.

La sala era in una penombra data dalla luce intermittente delle scale che salivano al piano di sopra. C’erano teche piene di trofei, cornici dorate su foto di affetti privati e uomini importanti, attestati di benemerenza con fascia tricolore e, appesi, due grandi specchi ingrigiti. L’ispettore guardò il commissario come a dire: che ti avevo detto? Ma il commissario ricambiò lo sguardo con un’occhiataccia imperiosa. Proseguirono l’ispezione, la cucina era buia e vuota, presero le scale e furono sopra, dove si affacciavano le camere. E videro.

Nella matrimoniale, una donna giovane, seminuda, giaceva sul letto con un foro di proiettile in mezzo alla fronte. Di fianco al letto, nella culla, la bambina era immobile e una macchia rossa si era aperta sulla camicina rosa. Più avanti nel corridoio, un uomo di mezza età, camicia e mutande, era a terra sul suo sangue con gli occhi sbarrati e la tempia distrutta. A prima vista non c’erano sulla scena del crimine cassetti aperti, rovesciati o altri segni di una tentata rapina. Omicidio-suicidio, allora? Ma dov’era l’arma del delitto? E poi lo udirono.

Un lamento sommesso, cupo, disperato. Veniva dal guardaroba, da dentro un armadio. Aprirono: nascosto dietro i vestiti, un bambino stava accucciato, piangeva, guardava davanti a sé, ma come non vedesse nessuno. Quanti anni poteva avere: nove, dieci? Accanto aveva una pistola. L’ispettore lo prese in braccio amorevolmente per quanto si potesse parlare di amore in mezzo a tanto dolore. Poi tutto andò avanti nel corso della notte, del mattino dopo e a seguire, come da prassi: chiamarono la scientifica, le ambulanze, la psicologa fu allertata, casa e dintorni furono isolati dai curiosi, i giornalisti tenuti a bada, nei limiti del possibile. C’era una finestra aperta sul retro, a piano terra. Voleva dire qualcosa? Un estraneo era entrato nella casa? Ulteriori tracce però non furono trovate. Allora si trattava davvero di un caso di omicidio e suicidio? L’uomo dopo un litigio, le cui grida erano state avvertite, aveva sterminato la famiglia, tranne il figlio che si era nascosto, e poi si era ucciso? Per quale motivo? Passionale: una crisi di gelosia? Economico: gli affari andavano a rotoli ed era in vista un fallimento? Oppure pazzia: delirio maschile? Cosa gira nella testa degli uomini, se qualcosa gira? Bisogna comunque essere pazzi e in preda al male per compiere un gesto così efferato. La pistola rinvenuta nell’armadio era quella che aveva sparato, compatibile con le ferite mortali dell’uomo, della donna e della neonata. Però non risultava un’arma registrata. E perché era accanto al bambino? Forse l’aveva raccolta da terra dopo gli omicidi e il suicidio del padre? Altro non era pietoso pensare, dopo tutto quel male. Non bastava nemmeno il dolore, era troppo l’orrore. Il bambino non ricordava nulla ed era bene che continuasse a non ricordare.

Il commissario si arrovellò per tanto tempo, prima di chiudere il caso. Un caso non del tutto risolto. Come tante cose, come la vita, ma peggio della vita. Come la morte. Del bambino sopravvissuto non chiese mai. Calogero, che era un uomo buono, ogni tanto sembrava volesse dirgli qualcosa, ma lui non voleva sapere. Voleva dimenticare quella tragedia e, a volte, il suo stesso mestiere. Avrebbe voluto andarsene via, mettere un mondo intero dietro di sé. Alla fine restava poco di tutto. Memorie chissà se attendibili, gli specchi anneriti, i ritratti, ilari o alteri, dei cari, dei giovani amori. E una casa da abbattere davanti al bosco incombente sull’incuria del parco. Storie di orrori feroci e di errori imperturbati, le glorie polverose del tempo e le siepi di alloro, odorose di piscio.

Il commissario riaprì gli occhi. Perché quel cazzo di sogno, perché quel ricordo sepolto e riemerso? Non c’era un lago fermo, chiuso e immalinconito, c’era un mare. Per qualcuno un porto sicuro, per altri un oceano aperto da spingersi al largo, incontro all’amore doloroso della vita. L’oceano e, in mezzo, quelle isole migrabonde, alla deriva. Squillò il telefono: commissario, era Perez, Dores sarà liberata, abbiamo trovato le assassine, hanno confessato. Boa sorte, buona fortuna, amico mio.

Marco Celati

Pontedera, Settembre 2023

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P.S. Montale, Saba, Tabucchi, Luperini in pillole, le solite cose: scusandomi, ringrazio. Poco si sa, il resto si inventa e si assembla alla meglio. O alla peggio, dipende. E comunque ogni riferimento a fatti o persone della vita reale contenuto nel racconto è puramente casuale.

Marco Celati

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati